www.calabria.org.uk            Calabria-Cosenza-Centro Storico 2° parte    

 

 

VISITA ALLA CITTA’ STORICA

 

Seconda parte

Per il secondo itinerario il punto di riferimento è il nuovo ponte sul Busento più noto come Ponte Mancini, raggiungibile da varie parti. Dirigendosi verso Donnici, dopo poco più di duecento metri, eccoci ad un bivio; si gira a sinistra e ci si avvia verso Portapiana.

La prima tappa da effettuare al cosiddetto "Girone della Motta" (Il termine sta ad indicare un terrapieno ricavato artificialmente su un pendio, ed è di origine normanna) consente una visione panoramica sulla Cosenza nuova. Poco più avanti, si erge la chiesa di Santa Maria di Gerusalemme, meglio nota come chiesa delle Cappuccinelle o chiesa di Santa Croce (37). Venne fondata nel 1581 dal parroco di Cellara sui ruderi del monastero e della chiesa cistercense di Santa Maria della Motta, del XIII secolo, della quale sono oggi visibili arcate ogivali poggianti su colonnine e monofore goticheggianti. Nel 1582 vi fu addossato il monastero che in seguito fu occupato dalle suore dell’ordine delle Cappuccinelle. Oggi vi sono ospitate le Guanelliane. Il terremoto del 1854 lo danneggiò seriamente causando anche la dispersione di numerose opere d’arte. Dopo 6 anni, con l’Unità d’Italia, venne soppresso e, nel 1911 concesso dal comune di Cosenza quale istituto per orfanelle affidato alle suore della Divina Provvidenza. La facciata, molto lineare, presenta il portale in tufo sormontato da un rosone a torciglione del XVI secolo opera delle solite maestranze di Rogliano. L’interno, a navata unica, ha un altare sul quale è visibile una bella Deposizione della Croce circondata da riquadri che raffigurano la Via Crucis, dipinti da Gaetano Bellizzi nel 1841. Il soffitto è a cassettoni di legno lavorati. Vicino all’ingresso, a destra, un dipinto raffigurante San Francesco di Paola; a sinistra, Sant’Antonio da Padova, entrambi di ignoti meridionali del ‘700. La navata è circondata da affreschi ottocenteschi che ritraggono i Misteri.

Dietro l’altare v’è un locale detto "il coro" ove un tempo ricevevano la comunione le Cappuccinelle che erano suore di clausura. Vi si ammira l’Immacolata, pregiata opera su tavola dipinta dal cosentino Pietro Negroni nel 1558; poi un prezioso Ecce Homo, statua lignea settecentesca in mezzobusto alla quale la tradizione lega il prodigio di una sua riapparizione seguita ad una precedente scomparsa. In sagrestia è posto un crocifisso attribuito ad allievo di Frate Umile da Pietralia. Una tela raffigurante l’Immacolata , datata 1595, è opera di artista proveniente da scuola napoletana.

Più avanti, sulla destra, dopo una breve scalinata ecco il palazzo del Gaudio. Sulla facciata, settecentesca, un portale sormontato da un frontone a linea spezzata. Uno stemma scolpito in marmo ed alcune finestrelle ne abbelliscono il prospetto. Nel 1806 vi alloggiò il sanfedista Panedigrano e, nel 1813, vi dimorò l’Intendente Manhès. Alla confluenza tra Portapiana e la strada per Donnici, è posta la chiesa di Santa Maria della Sanità (38).

Edificata nel 1481, ebbe l’attuale denominazione nel 1652 e fu restaurata nel 1759; il portale di tufo bianco è opera di artigiani locali del XVII secolo. All’interno, a navata unica, abbiamo: a destra, sul primo altare, un crocifisso ligneo del ‘500, sul secondo, quadro dell’Immacolata ad olio su tela del sec. XIX; segue altare con dipinto di S. Antonio eseguito da F. Ronchi nel 1882; poi tela di ignoto del sec. XIX su cui è effigiato Sant’Ippolito. A sinistra, il primo altare è dedicato alla Madonna del Carmine con relativa tela; il secondo contiene un quadro di Sant’Anna, il terzo di Santa Lucia; il quarto custodisce il quadro della Purità. Tra un altare e l’altro, sulla parete destra, incassati nel muro, sono posti due originali confessionali. Sull’altare maggiore, costruito in marmi policromi, è posta la pala d’altare che raffigura la Madonna della Sanità eseguita da Rocco Ferrari nel 1910. Inoltre, nella parete absidale destra, si ammira una tela che raffigura la Pietà; su quella opposta, è ritratto Cristo alla colonna, quasi sicuramente opera di Gius. Pompeiano da Scigliano, eseguita nel 1767. Tra una tela e l’altra, in apposite edicole, sono posti degli affreschi che raffigurano: Santa Margherita, Santa Rita, Santa Geltrude e Santa Caterina. In sagrestia, i seguenti dipinti: Madonna delle Grazie, San Luigi, la Decapitazione di San Giovanni e la statua di Santa Maria della Sanità. Dalla sagrestia partiva il cosiddetto "tragitto", cioè il percorso privato del vescovo e degli alti prelati per entrare in chiesa.

La chiesa, originariamente era in forme gotiche cancellate da una sovrastruttura barocca; tuttavia, salendo dalla cantoria, si possono ancora scorgere alcuni affreschi quattrocenteschi. Bello il chiostro addossato alla chiesa e le strutture che ospitarono i Francescani Conventuali. Entrando nel quartiere Portapiana, sulla destra, facciata cinquecentesca della chiesetta dell’Ecce Homo, oggi sconsacrata. Più avanti, chiesa del Sacro Cuore di Gesù, anch’essa chiusa al culto. Poco prima di affrontare la salita per il castello soffermiamoci a dare un’occhiata alla chiesa di San Giovanni Battista.

L’ambiente circostante, come s’è visto, dà l’idea di trovarsi in un piccolo villaggio e non in una grande città, e la stessa chiesa mantiene il fascino discreto delle parrocchie rurali. E’ invece antichissima e si ritiene che già esistesse nel 911 ai tempi delle incursioni saracene. Gravemente danneggiata dal terremoto del 1905, venne ricostruita quattro anni dopo. L’interno è anche caratterizzato da estrema semplicità. Proprio per questo la suggestione che se ne riceve è maggiore. Un’unica piccola navata che si permette il lusso di avere anche una cantoria è decorata in stucchi bianchi formati da una serie di paraste lisce e colonne scanalate sormontate da capitelli compositi. L’altare è in stucco dipinto a fingere il marmo e reca sul paliotto un’urna sulla quale è applicato un ovale tra volute e due teste di cherubini. Le decorazioni sono del Vivacqua e del De Fazio eseguite nel 1848. La balaustra con cancellata è in ghisa stampata, con due ovali nei quali sono dipinti degli angeli con i simboli della Passione.

Per una migliore fruizione dei dipinti, è forse opportuno ricordare che di questo santo lo stesso Gesù Cristo disse: «In verità vi dico: tra i nati di donna non è apparso uomo più grande di Giovanni Battista». Sotto Tiberio, siamo nel 30 d.C., il fiume Giordano è affollato da gente venuta per farsi battezzare da quest’uomo, nato da Zaccaria e da Elisabetta (cugina di Maria), tra gli altri anche Gesù Cristo, suo cugino, di sei mesi più giovane. L’opera di proselitismo di quest’uomo che aveva passato gran parte della sua vita in astinenza, preghiera e meditazione, preoccupa non poco le autorità costituite. Erode Antipa, accusato dal Battista di aver abbandonato la moglie per sposare Erodiade, sua cognata, lo fa arrestare. Il resto è noto a tutti: Salomé, figlia di Erodiade, dopo una danza travolgente chiede la testa di Giovanni che le viene portata su un piatto d’argento.

Per meglio seguire questi fatti, si consiglia di partire dalla piccola tela posta alla parete absidale destra, e di continuare in senso antiorario. La prima opera raffigura l’Incontro della Madonna con Elisabetta; alla parete absidale sinistra, Apparizione dell’angelo a Zaccaria; segue la Nascita di S. Giovanni Battista; poi S. Giovanni sulle rive del Giordano con l’agnello di Dio; quindi la Predica di S. Giovanni. Si passa alla parete destra: la prima opera ritrae Erode ed Erodiade in trono, di fronte a loro il Battista in atto d’accusa; più avanti, un’opera che ritrae Salomè che porta su un vassoio la testa del santo, e, il ultimo, la scena della Decapitazione di S. Giovanni. Tutte queste sono opere di anonimo pittore ottocentesco.

Sull’altare, la classica scena del Battesimo di Cristo sulle rive del Giordano, ritratta in un olio su tela da Giambattista Santoro nel 1846.

Qualche curva in salita, ed eccoci al castello (39). Sorge sul colle Pancrazio dal quale si domina il capoluogo bruzio. Edificato sicuramente dai Saraceni sui ruderi dell’antica rocca bruzia, intorno al 1000 venne danneggiato dal califfo Saati. Ruggero II nel 1130, ne revisionò la struttura, ma appena 54 anni dopo, il funesto terremoto del 1184 lo rese completamente inagibile. Toccò a Federico II ripristinarlo aggiungendovi la torre ottagonale nel 1239. Vi dimorò Arrigo di Hohenstaufen, alias Enrico lo Sciancato figlio dell’imperatore il quale, secondo alcuni, vi restò prigioniero su ordine del padre. Ma non è il caso di spingersi troppo in questa direzione. Sotto gli Angioini fu aggiunto il piano superiore e la cappella. Nel 1443 fu sicuramente arredato a festa e adibito a residenza principesca per accogliere i novelli sposi Luigi III d’Angiò e Margherita di Savoia. Nel corso della lunga diatriba tra Angioini ed Aragonesi, fu utilizzato quale zecca di monete ed è sicuro che Alfonso d’Aragona vi trascorse momenti lieti della sua adolescenza. Successivamente venne via via adibito a deposito d’armi e a prigione.

Il terremoto del 1638 ne decretò l’inizio del declino. Il vescovo Capece Galeota, famoso per avere deturpato la cattedrale con una sovrastruttura barocca, mise mano anche a questo edificio per adattarlo a seminario. Da quel momento il castello non conobbe più pace essendo sempre, praticamente, un cantiere di lavoro aperto con restauri che dovevano eliminare gli orrori degli interventi precedenti. Le tracce della vecchia struttura saracena sono ormai scomparse; di epoca sveva, come già accennato, c’è la torre ottagonale, mentre del periodo angioino restano gli stemmi, col rastrello e il giglio nelle serraglie di alcuni vani del lato meridionale. Nel chiostro interno sono evidenti le modifiche effettuate dai Borboni per installarvi il carcere dove, nel 1844, vennero rinchiusi Domenico Mauro, Biagio Miraglia e Tommaso Ortale. Tuttavia, a parte i danni causati dai già noti eventi tellurici, altre conseguenze vennero provocate dai bombardamenti della seconda guerra mondiale.

Cominciamo la visita evidenziando che le denominazioni attribuite ad alcuni locali, più che il risultato di approfonditi studi storici, sono frutto di pura fantasia. Il vecchio ingresso non era dov'è posto quello attuale costruito nel ‘700 e risistemato nel secolo successivo; si varcava un portale ad arco acuto ove è ancora visibile uno scudo del periodo aragonese, per accedere in quella che oggi è nota come "la Cittadella" o "Piazza d’armi" (attuale cortile d’ingresso). A sinistra, ecco la torre esterna, probabile locale della fucina, utilizzato dai Borboni come polveriera; sulla destra, una porta d’accesso minore con arco acuto; al centro, i resti evidenti dell’antica cisterna. Di fronte, varcato un portico costruito nel XVIII secolo, vi era una porta che immetteva nel salone di rappresentanza, successivamente murata, sormontata dallo stemma dell’arcivescovo Francone oggi privo degli stucchi colorati di cui era fornito all’origine. Sulla sinistra si sviluppa una scala che porta ai locali costruiti nel corso del ‘700 e che vennero utilizzati, molto probabilmente, come alloggi e cappella per il seminario e, successivamente, dai Borboni come saloni militari.

Nella sua impostazione originaria, vi era sicuramente collocata una "cisterna sospesa" come integrazione delle altre, per la notevole esigenza di approvvigionamento idrico. Giunti sulla sommità delle scale, eccoci di fronte ad una veduta spettacolare, sia che lo sguardo si rivolga verso Cosenza, sia verso il complesso delle strutture del castello il cui sviluppo, in tal modo, si comprende meglio. Tornando nel piano inferiore, ci si trova di fronte al cosiddetto "corridoio angioino" la cui denominazione è dovuta allo stemma contenente i fiori simbolo della dinastia, incastrato quale chiave di volta, verso cui convergono costoloni svevi nascenti da mensoloni decorati con fogliame, anch’essi scolpiti alla maniera sveva. Sulla sinistra, un locale noto come "cisterna Santa Barbara"; sulla destra il "salone di ricevimento" utilizzato per il protocollo di rappresentanza nelle cerimonie ufficiali, oppure come una sorta di sala d’attesa. Subito dopo l’ingresso, il camino federiciano, ossia un brutto rifacimento di esso; di fronte, un’apertura con arco ad ogiva che immette nel cortile. Più avanti, sul lato destro, un’altra porta introduce in una sala denominata, con una fantasia senza confini, "sala della regina Isabella d’Aragona". E’ chiaro che si tratta di una invenzione finalizzata a stupire il visitatore, giacché è tutta da dimostrare sia una permanenza di Isabella in questo castello, sia la collocazione logistica di una residenza regale accanto ad una sorta di sala d’attesa e, come se non bastasse, dotata solamente di strette feritoie a scopo difensivo. E’ sicuro, invece, che si tratti della torre quadrata di nord-ovest con strette aperture da avvistamento e scarichi.

Si ritorna nel "corridoio angioino" del quale restano solo due campate e che delimitava, a destra il vasto cortile del castello, a sinistra la "sala delle armi". Di questo ampio locale, progettato a sei sale comunicanti aventi costoloni di tipo svevo nascenti da robuste e corte colonne sovrastate da capitelli di tufo su cui è scolpito un vistoso fogliame, resta solo il primo vano caratterizzato dalla singolare presenza di un’acquasantiera. Le inferriate forgiate a mano in senso alternato, incrociate con un ingegnoso incastro, sono le testimonianze del carcere borbonico; tuttavia gli elementi superstiti richiamano il periodo svevo al quale appartengono sia il caminetto che la cisterna. Sulla sinistra, in fondo, si accede alla torre ottagonale fatta costruire da Federico II; è dotata di un locale di servizio e di saettiere, e reca ancora visibile la sapiente costruzione della volta.

Sul lato opposto del salone, tramite una porta con arco di epoca successiva, si accede alla cosiddetta "sala del trono" verso la quale conduceva anche il "corridoio angioino". Si tratta dell’insieme di tre sale sveve con volta a crociera, delle quali la prima presenta gli elementi originari, la seconda manca di una crociera e la terza è stata interamente rifatta. Adiacente a quest’ultima era posta l’altra torre ottagonale saltata in aria nel ‘600 quando era adibita a polveriera. Uscendo dalla "sala del trono" e andando verso il cortile, sulla sinistra, troviamo resti delle murature listate edificate nel ‘700 per adattare la struttura a seminario, e che si elevavano per tre piani. Più avanti, sul lato ovest, sono posti i bastioni ottocenteschi su un probabile sostrato angioino e, accanto, vicino al salone di rappresentanza, resti del locale ottocentesco destinato a servizi. Vicino al castello c’è la casa di riposo Umberto I che occupa i locali un tempo appartenuti al convento dei Cappuccini.

Quest’ordine aveva fondato una prima chiesa nel 1534 nei pressi della località Motta. Ritenuta malsana e poco agevole, venne abbandonata perché i monaci, nel 1652, edificarono un nuovo convento, poco più in alto, in un posto scelto per la maggiore salubrità dell’aria, e, secondo la tradizione, in prossimità dei ruderi del vecchio duomo; anzi costoro avrebbero completato i lavori di costruzione con il tesoro della prima cattedrale. Il nuovo convento, venne soppresso dalle leggi napoleoniche e poi, definitivamente, dopo l’Unità d’Italia. Delle tracce dei Cappuccini e della devozione dei fedeli, resta ben poco. E’ triste vedere i pochi dipinti superstiti affrontare l’aria insalubre ed i fumi del refettorio della casa di riposo.

In quanto alla chiesa, che veniva utilizzata come ripostiglio e deposito delle più svariate merci, è completamente inagibile, anzi, nel febbraio del 1994, è crollato il tetto della parte presbiteriale distruggendo gli elementi marmorei del sottostante altare. Spero che quel che resta del patrimonio del convento (tra cui una scultura del De Santis raffigurante l’Ecce Homo) sia custodito con la cura necessaria e che le poche strutture superstiti della chiesa vengano maggiormente conservate (40).

Si prosegue la visita ma stavolta, invece che ritornare da Portapiana, si scende giù costeggiando la Villa Vecchia fino a giungere innanzi alla fontana dei tredici canali, un tempo nota come "Fontana del Paradiso". Continuando, in discesa, eccoci al quartiere Spirito Santo. L’omonima chiesa si presenta con un interessante portale che - come nota la Paolini - ha un fregio sul quale corre un’iscrizione che indica il committente, Antonio Belmusto e la data 1585. Elegante il sistema trilitico che riquadra l’arcata su piedritti: le paraste scavate vengono ribattute all’esterno e sostengono un alto architrave dalle raffinate cornici (41). All’interno, attualmente, la chiesa si presenta con la navata centrale e la navata destra, essendo stata, quella sinistra, demolita per ampliare la strada che portava alla "castagna". A sinistra, dipinto raffigurante San Giuda, opera di Giambattista Santoro del 1882, segue statua ottocentesca di San Filippo Neri; più avanti tela raffigurante lo stesso santo con stemma nobiliare, di ignoto di fine Settecento-inizi Ottocento. Sulla navata destra, gruppo di statue (Gesù nella bara, Cristo alla colonna, Sacro Cuore, Addolorata) di ignoti del sec. XIX. Nei pressi dell’altare, sulla destra, olio su tela raffigurante San Francesco di Paola con stemma nobiliare della famiglia Monaco (felino su fondo azzurro e fascia rossa) del sec. XVIII. Sull’altare maggiore, crocifisso ligneo seicentesco; a sinistra, dipinto di ignoto del sec. XIX su cui è effigiato San Giuseppe; nelle lunette, affreschi degli evangelisti; sul soffitto della navata, la Discesa dello Spirito Santo di S. Tancredi del 1953.

In questi dintorni era la Via delle Concerie; adiacenti al Ponte San Lorenzo, erano poste le botteghe dei conciatori di pelli che avevano necessità di far defluire le scorie maleodoranti prodotte dalle lavorazioni direttamente nel fiume. A sinistra, palazzo Martirano, con ampio e bel cortile d’ingresso. Di fronte, la scuola elementare dedicata a Carmela Borrelli, la mamma di Soveria Mannelli che, in una notte di tempesta di neve, salvò col calore del suo corpo il figlio da un sicuro assideramento. Accanto, la cappella dedicata al Piccolo crocifisso ritenuto prodigioso; prima della sistemazione del Crati era posta su un isolotto sabbioso. Da Piazza Spirito Santo, a sinistra ci si può dirigere verso il Lungo Crati.

Il visitatore non si faccia ingannare dal nome giacché il fiume non si vede affatto perché nascosto da centinaia di bancarelle che vendono ogni sorta di mercanzie ma niente di particolare e di veramente esclusivo. La cosa sicura è che questa città, pur essendo posta sulla confluenza di due fiumi, non può, come altri centri d’Italia, consentirsi di godere un lungo fiume con relativa passeggiata. Svoltiamo invece a destra varcando il Crati tramite il "Ponte della Massa" Il termine Massa, o mucchio, si riferisce ad un argine creato per impedire lo straripamento del Crati. Nel ‘500 era noto come "Ponte di Sant’Agostino".

A poca distanza, andando verso Cosenza Casale, ci si presenta la chiesa di Sant’Agostino (42), edificata nel 1507 dagli Agostiniani la cui presenza in città risale al 1426; nel 1640 andò distrutta in seguito ad un incendio e la successiva ricostruzione trascurò gli aspetti primitivi. Nel 1573 furono eseguiti ulteriori lavori ed il soffitto di lamia. Le leggi napoleoniche causarono la soppressione della struttura monastica e con la Restaurazione, i Borboni l’adibirono a carcere, tant’è che vi furono imprigionati, fino al giorno della loro fucilazione, i patrioti al seguito dei fratelli Bandiera.

Dopo un’ampia gradinata, eccoci di fronte ad un bel portale ad ogiva sormontato da una brutta finestra. L’interno è ad una sola navata con soffitto a botte. Attualmente, dopo i recenti restauri, ha gli altari disadorni e privi delle antiche opere d’arte. Il primo da sinistra, è dedicato a Santa Rita, il secondo a San Giacomo, il terzo contiene una Sacra Famiglia con lo stemma degli Agostiniani. A destra, quattro altari privi di opere d’arte ed un crocifisso del sec. XIX. In fondo alla navata, statua della Madonna della Consolazione e, nella parete absidale, statua di Sant’Agostino. A sinistra, una porta consente l’accesso alla cappella della Madonna della Consolazione per lungo tempo inagibile a causa dei danni prodotti dal terremoto del 1638, ma che preesisteva e alla quale fu addossata la costruzione cinquecentesca. Ai primi del ‘900 risorse a nuova vita insieme col campanile. Oggi si presenta decorata in stile barocco e fornita di sedili in legno a due ordini di posti. Alle pareti quattro dipinti di ignoto dell’800 ispirati alla vita della Madonna; sulla volta, tre opere di S. Tancredi: La croce, Dio Padre e Gesù Cristo. Sulla destra, nicchia della Madonna della febbre, nella quale è posta una splendida statua cinquecentesca in marmo raffigurante la Madonna col Bambino; poggia su una base con faccette scolpite a bassorilievo: al centro è raffigurata la Madonna col Bambino, ai suoi piedi un ragazzo inginocchiato; in quella sinistra, una chiesa ed un monaco; in quella di destra, un vescovo col baculo in mano, poi delle mura merlate e le porte di una città; non è difficile intravedervi, a mio avviso, la scuola di Antonello Gagini. Più avanti, altare con dipinto simile alla Madonna degli Orefici della Cattedrale. L’altare di fronte è dedicato all’Addolorata e contiene una statua in legno del ‘600. Sull’altare principale della cappella, in tre nicchie, sono poste le statue secentesche della Madonna delle Grazie, di Santa Rita e di Sant’Agostino. Sulla volta dell’abside, Madonna che consegna il Rosario ad una santa domenicana; alle pareti, sulla destra, Adorazione del SS., sulla sinistra, Madonna col Bambino e San Giuseppe, tutte e tre di ignoto meridionale del ‘700.

Da una porta della navata della chiesa vera a propria, si accedeva ad un bel chiostro e, quindi, al convento degli Agostiniani. Il chiostro e la parte conventuale allo stato attuale (1995) sono in fase di ristrutturazione. Poco più avanti, una stradina porta all’Area dei Fratelli Bandiera nel Vallone di Rovito. In questo posto furono fucilati i patrioti del 1844. Nel 1860 venne apposta una colonna a testimonianza del sacrificio dei martiri, ma sarà necessario giungere al 1937 per vedervi realizzato un dignitoso mausoleo. Si torna indietro verso il Corso Plebiscito, attraverso la "Garruba" denominazione cinquecentesca non attribuibile ai tempi della dominazione francese.

A sinistra il suggestivo mercato dell’Arenella; il toponimo starebbe ad indicare luoghi soggetti alle inondazioni del Crati che provocavano depositi sabbiosi (arene). Nel XVI secolo era nota come "Riginella" e la fontana pubblica che vi sgorgava, era appunto chiamata "Fontana della Riginella". Sulla destra la chiesa di San Gaetano (43) alla quale sono addossate delle costruzioni civili, sorte ove prima trovavasi il monastero che, nel 1795, era stato ceduto alla Congregazione del Suffragio.

L’attuale parrocchia, un tempo dedicata ai Santi Lorenzo e Stefano martiri sita nel borgo dei Pignatari, sulla sponda destra del Crati, fu trasferita nel 1783 nell’attuale sito, allora convento dei Teatini giunti a Cosenza nel 1624, anno di costruzione della chiesa e del convento. Il portale in pietra intagliata, opera di maestranze roglianesi del ‘600, è quasi uguale a quello della chiesa delle Cappuccinelle. L’interno, ad una sola navata e in stile barocco, si presenta oggi, dopo le decorazioni di Saverio Presta eseguite con la tecnica della "tempera velata", in maniera splendida. Fino a 60 anni addietro, la chiesa era munita di alcuni altari oggi demoliti. Sulla destra, bel crocifisso ligneo opera di Baldassarre de Blasio del ‘700.

Più avanti, la cappella di Santa Rita con una statua della Santa ed un dipinto di Santa Lucia entrambe del sec. XIX. Sulla destra è posta una lapide commemorativa dei morti civili del 1943. Sulla parete sinistra della navata, si apre la Cappella del SS. Sacramento; sull’altare era affrescata un’opera ad imitazione della Disputa del Sacramento di Raffaello, una insensata decisione ha fatto sì che vi si ricavasse una nicchia per apporvi una tradizionale stampa della Madonna del Rosario. Nell’altro vano della cappella, sculture lignee del Sacro Cuore e dell’Addolorata. Sul soffitto della navata, sono posti degli oli su tela a sembianza di affreschi, eseguiti da Emilio Iusi da Rose nel 1952; rappresentano: La lapidazione di Santo Stefano, L’estasi di San Gaetano con la Madonna che consegna il Bambino, Il processo e la condanna di San Lorenzo Martire. I medaglioni attorno, invece, sono dipinti a tempera. La cupola dell’abside, affrescata da Settimio Tancredi da Pietrafitta, presenta: la Gloria di San Giuseppe. Nelle vele, gli evangelisti; nelle lunette: la Sacra Famiglia, il Ritorno di San Giuseppe, la Fuga in Egitto. In sagrestia sono poste numerose statue tra le quali: Madonna col Bambino, opera in marmo di scuola michelangiolesca ed un busto ligneo di San Gaetano del sec. XVIII. Inoltre, una croce reliquiario, un armadio del 1859 ed una tela dipinta nel 1888 da G. Cremonese, raffigurante la Madonna del Rosario. La navata è adornata da quadri in bassorilievo raffiguranti i misteri. Vi si conservano ancora pregiati candelieri del napoletano Gabriele Sirino del XIX secolo.

Subito a destra per la salita di Via dei Tribunali si giunge al convento delle suore Domenicane di Santa Maria di Costantinopoli. Le religiose di questo convento, prima ospiti di una chiesa sita dove oggi trovasi il palazzo del Governo, si trasferirono negli attuali locali , dopo molte peripezie, nel 1880. Fu acquistata la chiesa di Sant’Ivone che apparteneva alla congrega degli avvocati, posta accanto alla chiesa di San Gaetano. L’interno è a navata unica, con un altare in marmi policromi. La volta della navata è adornata dai seguenti affreschi: Madonna col Bambino; San Domenico mentre prega la Madonna che accoglie sotto il suo manto monaci e monache domenicane, opera del De Gregorio del 1887; San Tommaso D’Aquino; Discesa dello Spirito Santo, tutti di ignoti dell’800. Sull’altare maggiore è posto un dipinto su tufo della Madonna di Costantinopoli ritenuta miracolosa per aver guarito uno zoppo. Inizialmente era posto all’aperto nei pressi della chiesa dei Cavalieri di Malta, poi fu trasferito nei locali ove oggi è la Prefettura e, infine, nell’attuale collocazione. Le stesse traversie del dipinto, per sua espressa volontà, sono state seguite dalla tomba dell’arcivescovo Brancaccio fondatore del convento; dietro l’altare, infatti, è visibile la sua lapide marmorea. L’immagine della Madonna, oggi molto deteriorata, a quanto racconta il Minicucci, negli anni trenta, era cinta da un’aureola d’argento del peso di duecento grammi circa. Sulle pareti si possono ammirare: la Madonna di Pompei con San Domenico, Santa Rosa e Santa Caterina, opera del pittore napoletano De Gregorio; il Martirio di San Clemente Papa dipinto nel 1837; San Ivon e una Crocifissione del sec. XIX. Sul pavimento, composizione in mattonelle di maiolica che raffigura il cane con la fiaccola in bocca, simbolo dell’ordine domenicano. Nell’attigua sala capitolare, altre opere tra cui un dipinto di San Domenico in Soriano del sec. XVIII; inoltre, un Crocifisso ligneo del ‘500, una Madonna di Costantinopoli del De Gregorio, una Madonna del Pilerio ed un Ecce Homo del ‘700.

Pochi passi in salita ed eccoci al palazzo Arnone (44). Eretto da Bartolo Arnone nel primo Cinquecento, venne utilizzato nel 1558 come sede della Regia Udienza dopo la vendita fattane da Ascanio Arnone allo Stato; al primo piano abitavano i presidi di Calabria Citeriore accanto al Grande Archivio di Giustizia. Due gravi incendi: il primo nel 1734 in seguito ad un tumulto popolare e nel 1747 per una rivolta delle donne che vi erano detenute, lo resero temporaneamente inagibile. Qualche decennio più tardi venne restaurato e, nel 1758, il Governatore delle Calabrie vi fece costruire agli angoli quattro bastioni (un primo era stato eretto dal preside Filomarino nel 1747). Ma il terremoto del 1854 fece crollare l’ultimo piano che non venne più ripristinato. Successivamente il piano superiore divenne sede del tribunale e quello inferiore carcere mandamentale.

Al giorno d’oggi questo vecchio palazzo è in corso di restauro e vi è destinata una importante pinacoteca a cura del Ministero dei Beni Culturali. A lavori ultimati, il piano terra ospiterà gli archivi generali, il catalogo, la biblioteca, l’ufficio stampa, gli uffici del personale, il laboratorio di restauro. I cortili interni saranno a disposizione delle istituzioni cittadine per attività culturali e del tempo libero. Al primo piano saranno collocati gli uffici tecnici, laboratori fotografici ed altri laboratori di restauro per rifiniture. Al secondo piano, oltre agli uffici residenziali, saranno allestite sale per mostre itineranti, un centro di catalogazione delle opere d’arte calabresi e, finalmente, una importante pinacoteca stabile. In questa tanto attesa struttura, saranno esposte opere già restaurate ma delle quali non è stata mai chiesta la restituzione per almeno vent’anni e altre ancora che verranno via via acquistate dal Ministero per i Beni Culturali ed Ambientali, che si affiancheranno ad una già ricca collezione che, allo stato attuale (anno 1991) comprende: La Stauroteca, la Tavola della Madonna del Pilerio; pregevoli opere di Mattia Preti (Ercole che libera Prometeo, Ercole che libera Teseo, il Martirio di San Sebastiano, San Girolamo e l’ultimo acquisto che raffigura Giacobbe, Labano, il suo gregge e Rachele); due bozzetti di Sebastiano Conca, un dipinto di Stefano Liguoro; una Sacra Famiglia del cosentino Pietro Negroni; un bozzetto di Corrado Giaquinto che raffigura L’Olimpo e Apoteosi della Spagna; tre splendide tele di Luca Giordano (Morte di Lucrezia, Morte di Cleopatra, Veduta di Napoli con architettura).

Nella piazza antistante venne piantato uno dei tre alberi della libertà. A un lato del portone d’ingresso è posta una lapide dettata da Bonaventura Zumbini in occasione del centenario della Rivoluzione Napoletana del 1799 e in memoria dei martiri del 1844. Nel vasto androne con volta a botte è affrescato uno stemma datato 1775, che appartiene appunto alla famiglia Arnone.

Più avanti, a lato, il palazzo Mollo, noto nel ‘500 come "del mastro portolano", perché evidentemente, vi si esercitava la portolania. Imbocchiamo la strada in discesa: a destra, dopo un’arcata, eccoci alle Paparelle; poco più avanti ci si trova di fronte alla chiesa di San Francesco di Paola (45) con annesso convento costruiti dal 1510 sul luogo di una chiesetta preesistente sotto il titolo della Madonna di Loreto e rimodernata nel 1720 su progetto di Giovanni Calì.

Soppresso nel 1809, sarà necessario aspettare fino al 1929 per vedervi ritornare i Minimi, ma il vecchio convento, dopo varie utilizzazioni, fu trasformato in caserma militare. Il terremoto del 1854 provocò il crollo della vecchia cupola successivamente riedificata. Anche il sisma del 1908 causò dei danni subitamente riparati. I pannelli in bronzo del portone raffigurano scene della vita di San Francesco di Paola; a sinistra, campanile a torre quadrata innalzato nel ‘600. L’interno ad unica navata, è pieno di lapidi commemorative e sepolcrali con scolpite figure di nobili cosentini e di monumenti funebri delle stesse famiglie; tra questi - appena sulla destra dell’ingresso - si nota il sepolcro di Ottavio Cesare Gaeta modellato in marmo nel 1593; al di sopra dell’urna, in una nicchia, statua di guerriero, sotto, stemma della famiglia Gaeta. Sulla parete destra, dopo un dipinto di recente esecuzione raffigurante il beato Nicola Longobardi rivolto a Dio Padre e a Gesù Cristo, due tele del ‘700: la Sacra Famiglia e la Madonna con San Francesco di Sales e Sant’Agostino. Su un altare, una statua lignea damascata di ignoto del ‘600 su cui è modellato San Francesco di Paola, racchiusa in una nicchia circondata da statuine in marmo raffiguranti degli angeli. Sul lato sinistro della navata, statua lignea di San Michele Arcangelo di ignoto del ‘700; in una navatella, la Trasfigurazione, opera in pessime condizioni di D. Guinaccia; segue, la Pietà, gruppo ligneo con sovrapitture del sec. XIX; poi una celebre opera di Pietro Negroni del 1551: Madonna col Bambino in gloria e i Santi Paolo e Luca. Nella stessa cappella, statua del Sacro Cuore e statua in legno dello scultore Santifaller di Ortisei raffigurante la Madonna del Miracolo, patrona dell’ordine dei Minimi la quale, nella chiesa generalizia dell’ordine, apparve e convertì l’ebreo Alfonso Ratisbonne. Nella navata è posta anche una crocifissione di anonimo; a sinistra dell’ingresso, in una nicchia, busto marmoreo di Muzio Gaeta del 1614. Nell’abside, sopra l’altare maggiore, è posto un trittico di Cristoforo Faffeo dei primi del ‘500 che raffigura la Madonna col Bambino tra i santi Caterina d’Alessandria e Sebastiano; alle spalle dell’altare, coro ligneo di M. Domenico Costanzo da Rogliano eseguito nel 1679. Sul soffitto della navata, quattro opere a pastello raffiguranti scene della vita di San Francesco di Paola del sec. XIX. Alle pareti della sagrestia, resti di affreschi del ‘500-’600 con storie di S. Francesco di Paola; poi una tela del ‘600: Cristo alla colonna di Battistello Caracciolo, ispirato dall’omonima opera del Ribera custodita nella Galleria Sabauda di Torino (46); un pittore del ‘500, probabilmente Rinaldo il Fiammingo, dipinse l’Adorazione dei Magi. Infine, alcuni ritratti di esponenti dell’ordine. Dall’opera del Minicucci sappiamo che in questa chiesa si custodiva il cappuccio di San Francesco.

Attraverso un piccolo ambiente che contiene una Madonna con santi francescani e un crocifisso, si entra in un corridoio con tracce di affreschi, ricavato da un’ala del chiostro del ‘500, attualmente murato. Bello e spazioso il chiostro che reca, in pessime condizioni, frammenti di affreschi raffiguranti episodi della vita di San Francesco di Paola. A sinistra è posta la piccola chiesa di San Salvatore ex oratorio della confraternita dei sarti fondata nel 1565, anno in cui pose la prima pietra l’arcivescovo Tommaso Telesio, fratello del più celebre Bernardino. Ora è sede della parrocchia degli italo-albanesi di rito greco residenti a Cosenza. Il portale è il pietra del 1707. All’interno, a navata unica, balza evidente il soffitto a cassettoni lacunari in legno finemente decorato. Ai lati, in alto, affreschi degli apostoli con tinte color pastello. Sull’arco trionfale del 1571, la data, 1653, incisa sullo stemma con l’aquila imperiale austriaca, sta ad indicare l’epoca dell’approvazione delle regole della confraternita. Ai lati due affreschi: Il Salvatore, a cui è dedicata la chiesa e la Vergine. Volgendo lo sguardo verso l'altare maggiore, si rimane affascinati dallo splendore dell’iconostasi, tenacemente voluta dal parroco don Antonio Bellusci. Si tratta di una mirabile composizione in pietra locale opera del maestro Pietro Fragale di San Giovanni in Fiore del 1983 che racchiude delle splendide icone: sulla destra, Cristo Pantocratore, a sinistra, la Panaghia. Nelle lunette superiori, a partire da sinistra: Annunciazione, Natività, Cenacolo, Crocifissione, tutte opere offerte dal metropolita di Corinto e dedicate ai fratelli di Calabria, eseguite nel 1983 dal pittore greco Demetrio Sukarà, lo stesso che ha lavorato nella Cattedrale di Corinto. Nel transetto, statua di legno dorato del ‘600 raffigurante San Omobono, patrono dei sarti. Alle pareti, tra varie icone, fa spicco un arazzo raffigurante Cristo nella bara, che viene portato in processione il Venerdì Santo; in alto, tela dell’Immacolata di artista anonimo del sec. XIX.

Uscendo dalla chiesa e affacciandosi nel parapetto di fronte, si è sopra la confluenza del Crati col Busento. Secondo la tradizione, da queste parti dovrebbe essere stato sepolto Alarico col suo tesoro. Un ampio marciapiedi costeggia il Corso Plebiscito.

Il fiume Crati nell’antichità era chiamato "aurifer et piscolentus" e si diceva che nelle sue acque si rinvenissero pezzetti d’oro. Questa tradizione ne richiama un’altra circa l’esistenza nel comprensorio cosentino di una miniera d’oro e di ferro, e più precisamente nei pressi del torrente Iovino, affluente del Crati. Ma questo fiume è ancora più noto perché le donne vi si bagnavano i capelli per farli diventare biondi, e vi immergevano la seta per schiarirla. Nel Busento, invece, i capelli si annerivano e la seta diventava scura.

Si dice anche che questo fiume aveva preso il nome di un pastore che, in assenza d’altro, s’accoppiava con la sua più avvenente capretta innamorandosene perdutamente. Il fatto non venne accettato di buon grado dal caprone capo-mandria il quale, roso dalla gelosia, uccise Crati a cornate mentre dormiva. Intanto, da quell’amore così innaturale nacque un essere per metà uomo e metà capra, adorato poi come dio delle selve.

Dal vespro del 1° alla sera del 2 agosto, vi era la tradizione del trasi ed esci, funzione dei Lupercali che salivano e scendevano dalla Via sacra e che, a quanto riporta Sant’Agostino nella Città di Dio, ricorda il Diluvio quando gli uomini entrarono ed uscirono dall’Arca e salirono e scesero dalle montagne.

A Cosenza si ritiene che in alcune grotte dietro la chiesa di San Francesco di Paola ci sia un tesoro alla cui guardia si trova un serpente. Per sconfiggerlo occorre essere armato di una torcia ed una ampolla, ma soprattutto, di coraggio ed ardimento. Lo sfidante dovrà procedere in silenzio, sopportare i terribili momenti che vedranno il rettile avvinghiarlo, e quando egli avrà dimostrato di non temerlo, lo vedrà progressivamente rimpicciolirsi ed entrare nell’ampolla rendendogli libera la strada per la conquista del tesoro. Ma se lo sfidante dovesse mostrare il minimo segno di cedimento, o lasciarsi scappare un solo lamento, interrompendo in quel modo il silenzio, verrebbe tratto in volo e trasportato lontano.

Residui di lontane tradizioni mitologiche dell’antichità classica, relative alle ninfe custodi delle acque che rendevano pazzi coloro i quali le avessero vedute, si trovavano proprio nella campagna circostante la città ove le contadine stavano ben attente a non avvicinarsi ad una fonte d’acqua o al fiume se c’era la luna piena a proiettarvi i suoi raggi, temendo la presenza di spiriti maligni. Nel circondario della città, c’era la credenza che toccare il cadavere di un impiccato liberasse dalle febbri quartane; la corda utilizzata per il macabro gesto, poggiata sul ventre di un sofferente, faceva scomparire le coliche. Vista la facilità con cui in questa città avvenivano le esecuzioni capitali, non era davvero difficile procurarsi questi prodigiosi arnesi, specie nella zona oggi nota come Via XXIV maggio, ma che in passato, come già accennato, era chiamata «delle forche vecchie». Se, invece, una donna incinta rischiava d’abortire, era necessario farle cadere sulla schiena nuda delle gocce di sangue di un colombo nero sgozzato per l’occasione.

Sempre nei dintorni di Cosenza, quando si andava a letto, non si spegneva la lucerna che illuminava la casa e si lasciava consumare da sola. In caso contrario, lutti e sventure si sarebbero abbattuti su quella famiglia perché quell’azione avrebbe avuto il significato di stroncare un’esistenza, rappresentata, appunto, dalla fiamma. Anche il ceppo natalizio doveva lasciarsi consumare da sé e se avanzava qualche tizzone, si aveva cura di conservarlo per adoperarlo poi in caso di cattivo tempo, mettendolo fuori dalla finestra, per evitare che i fulmini si abbattessero sulla casa.

All’interno dei rituali della settimana santa, ad ornamento dei sepolcri, vengono ancor oggi portati dei piatti col grano germogliato. L’usanza affonda le radici nel mondo pagano e ricorda i giardini di Adone che offrivano le donne fenicie e greche nella ricorrenza della festività della morte e resurrezione del dio, a simboleggiare la vita che rinasce. Ecco che la Pasqua assume il significato di rinascita anche della natura ed ordina alla quaresima: «esci tu vecchia arraggiata, ca trasu iu pasca arricciata». D’altra parte non era stata la quaresima a dire al carnevale: «esci tu puorcu ‘nzunzatu (sporco di sugna) ca trasu iu netta pulita?».

Il giorno di San Giovanni le ragazze scambiavano il ramaglietto, ossia un mazzetto di fiori di campo dove non doveva mancare u pulieru (il puleggio), ritenuta erba rituale per eccellenza. Se durante questa assolata giornata l’erba non appassisce, è indice di buon augurio.

Quando moriva qualcuno, le scene strazianti di dolore dei parenti più prossimi avevano luogo solo durante il giorno e cessavano al primo calar del sole. Le donne poi si toglievano dal collo il velo nero e lo sostituivano col fazzoletto bianco o colorato che avevano prima del luttuoso evento. Si pensava, infatti, che di notte apparisse il demonio e godesse del pianto delle anime cristiane. Se a morire fosse stato un bambino il pianto sarebbe stato ancor più funesto perché egli, diventato angelo e salito al cielo, sarebbe stato preso a pizzuluni (pizzicotti) dagli altri angeli.

Se la gallina imita il canto del gallo, la mala sorte è in agguato per cui si rende necessario ucciderla. Affatto bene augurale è il gufo che si aggira intorno alla casa e vi entra, per questo si cerca di catturarlo e di inchiodarlo alla porta per allontanare il cattivo presagio. Anche in questo caso è evidente il richiamo alle antiche usanze greche e romane. La civetta (pigula) porta bene alla casa dove si posa e sventura a quella dove guarda, infatti si dice: «viatu ddue sede amuaru dduve guarde». Il cuculo invece viene interrogato dalle donne da marito: «cuculu miu cuculu, quantu cci vo’ ppe mi nzurare?» ed egli risponde col canto. Se un insetto alato detto u purceddruzzu ‘e Sant’Antonu entra in casa, porta buon augurio, invece il grattare di un verme vicino al letto, è chiamato ‘u campanieddru de San Pasquale e annuncia una prossima morte.

In gran parte dei paesi della provincia si dava enorme importanza all’auguriellu, più noto nei dintorni di Cosenza come u monachiellu che si crede vestito di bianco con copricapo rosso e «tavolette leggere appese agli omeri che agitandosi nel suo cammino producono rumore all’intorno; a Longobucco con abito rosso e berretto azzurro...E’ uno spirito folletto, uno degli angeli ribelli meno cattivi, i quali rimasero sospesi nell’aria e scendono fra gli uomini come amici e a buon augurio. Nella fantasia popolare si presenta con la figura di un fraticello» (47). Chi riesce a catturarlo diventa ricco. Il momento più idoneo per farlo è quando si è in dormiveglia e il monachiellu ti salta sul petto. Egli diventa sempre più pesante; è necessario catturalo presto, incappucciarlo con un vecchio cappello e sistemarlo sotto una quadara di rame. A quel punto gli si può chiedere quel che si vuole. Lo staccio ha poteri protettivi contro forze malefiche. La madre lo pone accanto al bimbo che dorme per difenderlo dalle magare o dalle bizzarrie del monachiellu.

Per quanto riguarda il vecchio costume cosentino, è opportuno riportare quanto annotato dal tedesco Giovanni Enrico Bartels, membro della società reale delle Scienze di Gottinga e dell’accademia dei Volsci di Velletri, che giunge in Calabria nel settembre del 1786 e vi rimane fino al mese successivo. Recatosi a Cosenza dopo un faticosissimo viaggio da Castrovillari, nonostante fosse riuscito a trovare a mala pena una locanda e sebbene non fosse rimasto entusiasta dell’aspetto fisico della città, viene, invece, favorevolmente impressionato dai suoi abitanti dei quali dice: «Pensate ad un uomo forte, alto, solido, con lo sguardo di fuoco, con passioni improvvise, con capelli forti, neri e splendenti e si ha l’immagine del cosentino. Sembra ancora che stia in lui il vecchio spirito bruzio. La caccia è la sua occupazione prediletta e il fucile il suo più caro fardello. La vicinanza del bosco selvatico della Sila alimenta costantemente questa inclinazione. Tutti i Cosentini vanno vestiti con giacche corte e in gran parte con i berretti in testa: abitualmente pende sulla spalla sinistra una giubba nera. Con questo costume io vidi gli abitanti nella città come pure nella campagna intorno, dal più ricco fino al portatore d’asino» (48). Vengono detti Fringilluni. Si dice anche: «Cusentinu né luntanu né vicinu, e nemmenu ppé patrinu».

A Donnici, il costume tradizionale prevedeva: «Due scrime. Gonna turchina o verde con pedana rossa, corpetto rosso con pettiglia. Muccaturo (fazzoletto) legato».

Tratto da "L.Bilotto" - Itinerari culturali della provincia di Cosenza

 

(37) MINICUCCI C., op. cit. pag. 71.

(38) DONATO D. G. Chiese di Cosenza ecc., op. cit., p. 33. MINICUCCI C., op. cit., pag. 57.

(39) BORRETTI M. e R., Il castello di Cosenza, Cosenza, Calabria Nobilissima, 1983; IL CASTELLO di Cosenza: cenni storici sulla città. A cura di A. Fasano, Cosenza, Fasano, 1987; D’IPPOLITO GIACINTO, Il castello di Cosenza, in «Calabria Fascista» a. XI, 1935, n. 10-11-12; DONATO D. Il castello di Cosenza nel XIX secolo, in «Magna Grecia» 1979, n. 5-6, pp. 18-19; EGIDI V.M., Il castello di Cosenza in un documento aragonese dell’Archivio di Stato di Napoli, in «Calabria Nobilissima», 1959, n. 37, pp. 15-28; pp. 119-128; GALLO G., Il castello di Cosenza agli albori del sec. XVIII, in «Altoparlante» a. I n. 18, 1935; MAFRICI M., Il Castello di Cosenza, in «Calabria Turismo», a. IX, n. 31, 1977. MIRAGLIA E., Rocche e castelli in Calabria, Il castello di Cosenza, Castrovillari, La Vedetta, 1930; WILLEMSEN- ODENTAL, Calabria destino di una terra di transito, Bari, Laterza, 1963, pp. 21-22.

(40) MINICUCCI C, op. cit., p. 152

(41) PAOLINO F., Cosenza alla fine del XVI secolo, in «La città di Telesio», Vibo Valentia, Mapograf, 1990, tav. IX-XVII. (42) CECCARELLI A., L’ex convento di Sant’Agostino, in «Magna Grecia», maggio-giugno 1974. - MINICUCCI C., op. cit., pag. 173; NAPOLETANI M., Interessanti ritrovamenti nel convento dove imprigionarono i fratelli Bandiera, in «Gazzetta del sud» a. XXXVI, 23 febbraio 1987; RUSSO P.F., op. cit. pag. 642 (indice); SCUDERI S., op. cit.,

(43) BLOISE A., Il monachesimo in Calabria: sue origini e suo progresso, Cosenza, Società San Paolo, 1947; UN GIOIELLO dell’architettura del ‘700: il cupolino della chiesa di San Gaetano, in «Gazzetta del sud» a. XXXVI, 4 novembre 1987; MINICUCCI C., op. cit. pag. 49; RUSSO P. F., op. cit., pp. 219, 301.

(44) CECCARELLI A., La struttura museale polivalente di Palazzo dei Presidi: Pinacoteca nazionale della Calabria, in «Calabria Nobilissima», anno XXXIX, 1990, numero edito in occasione del ventennale della morte di M. Borretti, pag. 15; Due tele di Mattia Preti: primi acquisti per il Museo- Pinacoteca di Palazzo Arnone, in «Gazzetta del Sud», a. XXXVI, 29 marzo 1987; Una sacra famiglia del Negroni nella pinacoteca di Palazzo Arnoni, in «Gazzetta del sud» a. XXXVI, 23 ottobre 1987.

(45) ALPARONE G., Proponiamo il Maestro di Amalfi il S. Sebastiano nel trittico di S. Francesco di Paola a Cosenza, in «Brutium» a. LIX, 1980, n. 2, pp. 1-4; BOLOGNA F., Napoli e le rotte mediterranee della pittura da Alfonso il Magnanimo a Ferdinando il Cattolico, Napoli, soc. Napoletana di Storia Patria, 1977, pag. 277; MINICUCCI C., Cosenza Sacra, op. cit., pag. 141; PIETRO NEGRONI e la cultura figurativa nel ‘500 in Calabria, Roma, Marra ed., 1990; PREVITALI G., La pittura del ‘500 a Napoli e nel Vicereame, Torino, Einaudi, 1978; ROTILI MARIO, L’arte del ‘500 nel Regno di Napoli, Napoli, Libreria Scientifica, 1972, pag. 240; RUSSO P. F., Storia dell’archidiocesi di Cosenza, op. cit., pag. 639 (indice); SCUDERI S., Interventi di restauro sul patrimonio sacro in Calabria, in «I Beni culturali e le chiese di Calabria», 1981, pp. 449-467.

(46) DI DARIO M.P., I secoli del pianto, in «Itinerari per la Calabria», op. cit., pag. 278.

(47) D’ORSA V., op. cit., p.114.

(48) G.E. BARTELS, Briefe ueber Kalabrien und Sizilien Reise von Neapel bis Reggio in kalabrien, Gottingen, bei JohannCristian Dieterich, 1787, p. 268.

 

 
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