www.calabria.org.uk              Calabria-Cosenza-Centro Storico 1° parte    

 

 

VISITA ALLA CITTA’ STORICA

 

Prima parte

Si inizia la visita alla Cosenza storica partendo dall'edificio noto ai Cosentini come Chiesa della Riforma ma ufficialmente dedicata a Santa Maria di Costantinopoli con annesso convento dei monaci Riformati (1). Ad abitare la primitiva struttura dedicata a Santa Maria della Maddalena, furono i Conventuali che scelsero una località isolata forse per necessità, più probabilmente per meglio aderire ad un ideale francescano, fatto di meditazione e di preghiera, al di fuori del centro abitato. Costoro, all’epoca del loro trasferimento nel convento dei Benedettini, oggi San Francesco d’Assisi, cedettero il loro monastero, nel 1266, alle Clarisse. Le suore di Santa Chiara vendettero tali strutture al barone di Mottafollone Antonino Firrao il quale, dopo avere riadattato l’edificio abbandonato dagli Osservanti, vi insediò i Riformati nel 1628. In effetti, questa famiglia mostrò con evidenza la sua devozione verso tali religiosi; lo dimostrano anche i busti marmorei di esponenti del casato che, fino all’ultimo conflitto mondiale, erano ospitati all’interno della chiesa. E non erano opere di poco conto! Si pensi che le due sculture erano state commissionate al celebre artista Giulio Mencaglia di Carrara che aveva scolpito anche due monumenti degli stessi Firrao nella loro cappella gentilizia nella chiesa di San Paolo dei Teatini a Napoli.

Naturalmente la presenza di opere a carattere non sacro in un edificio religioso provocò le critiche di alcuni cittadini. Durante la tremenda epidemia di colera del 1837, vi fu allestito una sorta di lazzaretto. In ogni caso, i monaci della Riforma restarono in questo posto fino al 1866. Ma, già all’indomani delle leggi napoleoniche, la parte conventuale era stata utilizzata dal comune in vari modi prima di essere adibita a distretto militare. Per tale motivo fu particolarmente colpita dai bombardamenti dell’aprile del 1943 che provocarono un pauroso incendio. Ad andare distrutti, oltre ad importanti documenti d’archivio, furono numerose pregevoli opere d’arte conservatevi ed improvvidamente lasciate vicino ad una postazione militare. Finirono in cenere, oltre alla volta in cassettoni lavorati a mano e all’altare maggiore decorato in oro zecchino, un prezioso crocifisso settecentesco ed otto pregevoli tele del fiammingo Guglielmo Borremans dipinte intorno al 1704 e raffiguranti: la Presentazione al Tempio, Sant’Antonio da Padova, la Natività, l’Assunzione di Maria, San Francesco d’Assisi, il Trionfo dell’Immacolata con Duns Scott, la Nascita della Madonna, lo Sposalizio della Vergine.

Le opere erano poste al di sopra dei cornicioni della navata, quattro per parte. Ai lati dell’Arco maggiore erano raffigurati, sempre del Borremans, l’Annunziata e l’Angelo annunziante; sotto quest’ultimo era dipinto sicuramente l’autoritratto dell’artista. Si riuscì, invece, a salvare la tela Pascaletti di cui parlerà più avanti e, soprattutto, il crocifisso cinquecentesco miracoloso tanto venerato dai Cosentini e che, nella tradizione popolare, fa distinguere questa chiesa come del Crocifisso.

Al giorno d’oggi, la chiesa si presenta con due navate laterali ed una navata centrale. Su quella di destra, il primo altare è dedicato a Santa Rita che è effigiata in un affresco di Settimio Tancredi del 1958; sul secondo, quadro di Santa Lucia; sul terzo, una tela di anonimo raffigurante la Sacra Famiglia; sul quarto, stampa della Madonna di Pompei. In fondo alla navata, altare con tre statue: San Francesco d’Assisi, Madonna Addolorata, Sant’Antonio da Padova, del sec. XIX. Sull’altare maggiore, crocifisso della fine del Cinquecento ritenuto miracoloso salvato dal rogo che distrusse la chiesa nell’ultimo conflitto mondiale. In sagrestia, crocifisso settecentesco, armadi in legno intagliati con motivi floreali e, alle pareti, gonfaloni processionali. Sulla navata sinistra, frammento di statua di esponente della famiglia Firrao. Sul primo altare, dipinto raffigurante la Madonna col Bambino; sul secondo, statua del Sacro Cuore; al di sotto, altare in legno fatto di sole mensole, intagliato e con uno stemma raffigurante una torre, un bue e tre stelle. Sul terzo altare ligneo pitturato ed intagliato sovrastato da uno stemma composto da due braccia incrociate e da una croce, è racchiuso un pregevole dipinto eseguito da Giuseppe Pascaletti da Fiumefreddo Bruzio raffigurante San Pietro d’Alcantara. Queste cappelle sono sovrastate da archi in tufo della primitiva chiesa. Sul quarto altare, sopra un fonte battesimale in pietra, è posto un pannello scolpito di grandi dimensioni, raffigurante Gesù con scene della sua vita, eseguito dallo scultore Filippo nel 1975. In fondo alla navata, altare in pietra col paliotto scolpito raffigurante l’Ultima Cena. Sulla parete, le Beatitudini, sculture del 1984.

La sottostante piazza della Riforma, ha resistito, nel tempo, a tutti i tentativi della commissione toponomastica di inneggiare ai personaggi e agli avvenimenti in vigore e di moda nella varie epoche. Da una parte, si accede alla Via Rivocati il cui significato verrà illustrato più avanti, da un’altra ha inizio Corso Umberto.

Al lettore non sembri strano se questo itinerario percorre strade ritenute moderne, perché, questa parte della città, più immediatamente collegata con il vecchio centro posto al di là dei fiumi, sedimentata da oltre un secolo di vita, fa ormai parte della storia cittadina. Questo corso era, a cavallo tra i due secoli, denominato Via dei Platani e conduceva, attraverso un percorso caratterizzato da terra battuta, al quartiere dei Carmine, nei pressi dell’attuale Piazza Bruzi e della vecchia stazione ferroviaria.

L’estrema periferia della città era delimitata dalla Via Ruocciolo che, partendo dalla Riforma, percorreva in buona parte l’attuale Via Piave, fino a congiungersi con la stessa Via dei Platani nei pressi del vecchio ospedale dell’Annunziata. Le foto d’epoca mostrano suggestive immagini di questi quartieri veramente giovani: l’attuale Piazza della Vittoria, o meglio la "Villetta Nuova" sorse in aperta campagna, accanto al palazzo della banca d’Italia programmato nel 1913 e realizzato subito dopo. Durante il periodo fascista, la villetta venne denominata Piazza Littorio; nel 1936, su progetto dell’architetto Bagalà, fu eretto il monumento, oggi della Vittoria, dedicato ai Caduti della Guerra del 1915-18, scolpito da Clemente Spampinati e formato da tre grandi monoliti granitici. Più avanti, sulla destra, era posto il vecchio ospedale dell’Annunziata, rifatto nel 1908 e funzionante fino al 1939, data in cui fu costruito l’attuale nosocomio.

Nei documenti antichi, l’intera area appare come Spianata dell’Annunziata, nome derivato da una chiesetta addossata al vecchio ospedale e data alle fiamme nel 1806, durante il dilagare di un'epidemia e dopo che vi erano stati sepolti numerosi soldati francesi che costituivano una seria minaccia per l’ulteriore propagarsi del morbo. Le funzioni cimiteriali passarono alla vicina chiesa di San Nicola. Al posto dell’attuale Via Marco Aurelio Severino, v’era il Vicolo della Mortilla noto anche come Via dei Sellari per la presenza di botteghe ove si fabbricavano selle per equini. I sellai, assieme ai maniscalchi, avevano addirittura una loro congregazione sotto il titolo di Sant’Elio. Il nome Mortilla potrebbe essere la corruzione di Posterla (piccola porta) a testimonianza di una porta della cinta urbica medievale.

Oggi di queste stradine s’è persa ogni traccia e la toponomastica, sopprimendo nomi legati alla tradizione popolare, preferisce quelli, in questo caso non meno importanti, legati a quella erudita. Marco Aurelio Severino, nativo di Tarsia ed amico del Campanella, si laureò a Salerno nel 1606, divenne primario dell’ospedale degli Incurabili di Napoli e professore presso la locale università. Compì studi che precorsero l’attuale anatomia comparata, tra mille difficoltà, non ultima quella della persecuzione dell’inquisizione; morì a Napoli di peste nel 1656.

La chiesa del Carmine sorse verso la metà del ‘600, ma i Carmelitani erano giunti a Cosenza già nel 1582. Inizialmente, come racconta il Minicucci, abitavano nel luogo ove era situato l’ospedale vecchio (una grangia soggetta all’ospedale Santo Spirito di Roma, dedicato a Santa Sofia). Nel 1576 chiesa e convento vennero ristrutturati, ma quest’ultimo finì oggetto della soppressione del 1783. Dopo il successivo ripristino, fu nuovamente cancellato nel 1809, per essere adibito a sede della guardia provinciale prima, e dei carabinieri dopo. Con decreto del marzo 1814 la chiesa fu affidata all’ospedale dell’Annunziata. Il terremoto del 1854 vi arrecò notevoli danni; durante la sua ricostruzione, venne alla luce un affresco raffigurante la Madonna allattante; il Bambino con una mano regge il globo, con l’altra benedice; l’opera è del 1553 ed è collocata sulla parete destra, vicino all’ingresso laterale. Accanto, crocifisso settecentesco. Sul lato sinistro, acquasantiera in pietra nera, ruderi dell’antica chiesa ritrovati in seguito al rifacimento del pavimento; più avanti, cappella con statua della Madonna del Carmine; segue un bellissimo affresco raffigurante la Madonna col Bambino; probabilmente, trattasi della Madonna Bruna (2).

Dal Carmine, verso nord, si apriva Via delle Forche Vecchie (attuale via XXIV maggio) tristemente famosa perché vi avvenivano le esecuzioni capitali; varcando il ponte Alarico, ci si recava a San Francesco di Paola; verso la parte vecchia si apriva una strada ed il vicolo detto Mortilla. La strada, oggi notevolmente ampliata, ripercorre l’attuale Via Sertorio Quattromani, prima nota come Via San Nicola; terminava nei pressi dell’omonima chiesa demolita negli anni cinquanta di questo secolo, proprio per rendere più agevole l’accesso al ponte Mario Martire. La vecchia chiesa era stata edificata nel 1603; la nuova, sorta nel 1961 non molto distante dalla precedente su progetto dell’arch. Ballio Morpurgo, presenta linee moderne e soluzioni gradevoli. E’ corredata da due mosaici su pannelli opera di Franco d’Urso su disegno di Fantuzzi; sulla parete absidale, grande mosaico raffigurante la Madonna tra San Pietro e San Nicola con angeli recanti i simboli del santo intestatario della chiesa. L’autore è ancora Franco d’Urso su disegno del Ceracchini. Nel tabernacolo è collocato un bronzo raffigurante i misteri scolpito da Tommaso Gismondi. L’altare maggiore è costituito da un enorme blocco di marmo progettato dallo stesso Morpurgo. Alle pareti laterali sono addossati due grandi sculture eseguite dal leccese Pietro Guida raffiguranti il Sacro Cuore di Gesù e la Madonna di Fatima. Alla parete posteriore sono poste delle tele provenienti dalla vecchia chiesa che raffigurano: San Nicola bambino che prega vicino alla nutrice, San Nicola al Concilio di Nicea che dà uno schiaffo ad Ario, San Nicola che sostiene un albero che stava per abbattersi su un contadino, il Transito di San Nicola, San Nicola che libera un paggio schiavo dei Turchi, San Nicola che salva una nave in preda ad una tempesta, San Nicola che salva tre fanciulli, tutti attribuibili al locale pittore settecentesco Oranges. Non è stato possibile, invece, recuperare quattro dipinti a tempera che erano posti sulla volta dell’antica chiesa e che raffiguravano: San Nicola, Gesù, Preghiera e Martirio (3). Recentemente, la chiesa è stata arricchita di una scultura di Emilio Greco e di una tela cinquecentesca proveniente dagli Stati Uniti.

Il punto di partenza per la visita alla città più antica è senz’altro Piazza Tommaso Campanella che è, per così dire, la linea di demarcazione tra il centro storico e la nuova Cosenza. La piazza è dominata dalla chiesa di San Domenico con la sua cupola barocca rivestita di rame dopo l’ultimo conflitto mondiale. La sua consacrazione risale al 1468 quando il principe Sanseverino di Bisignano, potentissimo feudatario calabrese, donava ai Domenicani il suo palazzo accanto al quale veniva costruita anche la chiesa, sul sito di un edificio sacro preesistente dedicato a San Matteo. L’impostazione iconografica, per quanto si può desumere dai resti della primitiva costruzione, segue i canoni tradizionali delle chiese monastiche calabresi del ‘400; lo testimoniano: un protiro archiacuto e due cappelle rinascimentali, il vano absidale di forma quadrata con bifora ad arco acuto e i resti dell’arco santo, ma, soprattutto, un bellissimo rosone espressione del gotico flamboyant in Calabria, costituito da 16 colonnine in tufo. Da un punto di vista stilistico, la Di Dario nota come il rosone <<pur adottando l’antico sistema a ruota si realizza in una libertà di forme nuova dall’oculo centrale ornato di archetti che sono ancora quelli durazzeschi del monumento a Ladislao alle colonnine poligonali terminanti nei piccoli capitelli a foglia di cardo - e qui il linguaggio assume più chiaramente cadenze di gotico catalano - per poi aprirsi nei tipici archetti a chiglia racchiudenti ciascuno motivi diversi...». Tuttavia, la coesistenza di elementi architettonici rinascimentali frammisti con motivi tardo gotici, impediscono una esatta cronologia dei vari interventi. Il portale ligneo del 1614 presenta intagli di motivi floreali, figure di santi (San Vincenzo Ferreri, San Pio V, San Domenico, San Tommaso d’Aquino, Sant’Antonino, la Madonna del Rosario) e stemmi (famiglia Cavalcanti). Nella parte posteriore del complesso sono visibili i resti dell’abside originaria con bifora ad arco acuto. L’interno di impostazione gotica, ha una sovrastruttura barocca impressa con la costruzione della cupola e della volta a botte, tuttavia il primitivo coro, che nel corso del XVIII secolo è stato separato dalla navata, lascia ancora intravedere alcune linee originarie. La navata è abbellita di opere d’arte eseguite alla fine del ‘700 dal cosentino A. Granata: Santa Rosa, Santa Caterina, San Ludovico, San Giacinto; quest’ultimo porta una statua della Madonna perché la tradizione vuole che il santo, in seguito all’incendio del suo convento, cercasse di portare in salvo il SS. Sacramento, ma, mentre scappava, sentì una voce che proveniva dalla statua della Madonna che diceva: «perché fuggi e non mi prendi? ».

Lo stesso pittore è autore di un San Domenico in Soriano dipinto nel 1721 sulla parete absidale ove fa spicco anche una composizione a stucco eseguita probabilmente dal napoletano Giovanni Calì. L’altare maggiore in marmi policromi è del 1767, quello centrale è stato rifatto nel 1972 con pezzi dell’antica balaustra settecentesca. Nel transetto: a sinistra ancora un’opera del cosentino Granata raffigurante una Deposizione del 1793, sulla destra un San Vincenzo Ferreri opera settecentesca del Pascaletti. Ai lati dell’altare maggiore, due porte conducono alla sagrestia, il vecchio oratorio del Domenicani, con una volta costolonata ed una bifora ad arco acuto; inoltre, un coro in legno eseguito nel 1635 da artigiani di Paterno e Rogliano e una bella tela raffigurante la Madonna del Rosario tra San Domenico e Santa Agnese di Montepulciano, opera del cosentino A. Granata. Girando a destra e, superata una stanza di forma ottagonale probabile sepultarium dei frati, ed un’altra più piccola, si giunge in un locale rettangolare con la volta a "lacunari" in pietra ornata da rosette; a destra, tela settecentesca di anonimo raffigurante San Nicola di Bari, a sinistra, altare della famiglia Curati sovrastato da una tela del XVIII secolo: Il battesimo di Cristo dipinta nel 1860 da Pasquale Volpe. Continuando, oppure a destra del portale d’ingresso principale, si raggiunge la cappella del Rosario con un elegante soffitto ligneo dipinto; l’abside, rifatta, è a volte costolonata; a sinistra, altare della famiglia Martucci attribuito a Giovanni de Nola ed ai suoi allievi; in un’edicola, Madonna col Bambino scolpita nel 1540, meglio nota come Madonna della Febbre, su una base raffigurante la Natività e l’Adorazione dei Magi (facciata anteriore), sui due lati l’Annunciazione e la Resurrezione; nella lunetta, l’Eterno Padre; sullo scannello, 9 apostoli; sul paliotto, Deposizione; ai lati dell’altare, San Domenico e San Pietro Martire.

Da questa cappella, probabile nucleo primitivo dedicato, appunto, a San Matteo, si accede all’Oratorio del Rosario del quale colpisce immediatamente il soffitto ligneo del ‘600 intagliato e decorato in oro zecchino; al centro è visibile lo stemma del mecenate Lorenzo Landi e quattro dipinti: Gesù tra i dottori, Natività, Morte di Maria, Circoncisione; ai lati dell’arco santo, due dipinti su tela: l’Angelo annunziante e l’Annunziata. Sulla parete sinistra è posta la Visitazione; tra i finestroni sono collocati degli affreschi racchiusi in cornici lignee: Natività, Presentazione al Tempio, Gesù tra i dottori, Gesù nell’orto; sul lato destro: Crocifissione, Resurrezione, Trasfigurazione, Discesa dello Spirito santo, Assunzione. Sulla cantoria, organo in legno scolpito e dipinto del ‘700; addossati alle pareti, stalli in legno e pulpito ligneo del ‘700. Ai lati dell’arco, due statue in legno di San Tommaso d’Aquino e del Beato Enrico Susone. Nelle due cappelle laterali, una tavola della fine del ‘500 raffigurante l’Eterno Padre, di scuola michelangiolesca e un dipinto dedicato a Santa Liberata. La volta dell’abside, tra quattro vele sulle quali sono effigiati gli evangelisti, contiene un affresco raffigurante San Domenico in gloria tra Dio e i santi, opera di artista anonimo del ‘700. Sulla parete dell’abside, un’altra opera attribuita al Granata: la Madonna del Rosario; ai lati, due busti di cartapesta: San Tommaso d’Aquino e San Domenico.

A sinistra della chiesa è posto l’antico convento dei Domenicani, oggi sede del distretto militare. All’interno è notevole il chiostro con arcate, pilastri e portali in stile catalano-durazzesco; al centro, un pozzo con lo stemma della famiglia Ruffo. Nel corso di ultimi restauri a cura dei militari stessi, sono venuti alla luce elementi dell’antica struttura. Dopo la soppressione del convento, i Domenicani rientrarono in possesso della loro chiesa nel 1957 (4) .

Uscendo e proseguendo a sinistra, appare il Busento, mitico fiume sotto il cui alveo, secondo la nota leggenda, è sepolto Alarico re dei Visigoti col suo ricco tesoro frutto del "sacco di Roma" e di altre scorrerie.

Sulla destra inizia il quartiere dei Rivocati detto anche dei Taftanari dove, durante la dominazione sveva, si rifugiarono i fuoriusciti della città perseguitati da ingiustizie. Invitati a tornare (vocati) al primitivo posto in seguito ad un apposito bando regio, attesero un successivo provvedimento in seguito al quale rientrarono nelle mura cittadine. Furono pertanto "revocati" cioè chiamati due volte (5). Vi aveva luogo la festa della Maddalena istituita da Federico II.

Il fiume è sovrastato dal ponte Mario Martire, aviatore cosentino della seconda guerra mondiale morto nel campo di sterminio di Mauthausen. Anticamente era noto come "ponte dei Rivocati" ma, dopo il XVI secolo, come "ponte dei Pignatari", denominazione in precedenza attribuita all’attuale ponte della Massa, perché vi avveniva la vendita di oggetti di terracotta costruiti da artigiani di Rende e Bisignano. Subì numerosi rifacimenti: in seguito ad una piena del fiume nel 1544, dopo il terremoto del 1638, a cura del Francesi nel 1809, dopo i danni provocati dalla seconda guerra mondiale nel 1948 (6).

Varcato questo ponte, si è in Piazza dei Valdesi. La mente torna all’orribile strage consumata ai danni di un popolo che professava una fede in contrasto con i canoni del Concilio di Trento(7). A destra, il palazzo della Soprintendenza ai beni artistici e archeologici; accanto, il Teatro Morelli. A sinistra ha inizio Corso Telesio cuore palpitante della vecchia Cosenza; la prima parte di questa strada, fino alla Piazza Piccola, era nota un tempo come Via dei Mercanti (8) dove, tra gli altri negozi, prevalevano quelli che vendevano stoffe di pura seta, lana, cotone e merci varie.

Addentrandosi per questa strada si può cogliere il segno dell’abbandono in cui versa tutta questa parte della città e quei pochi negozi rimasti ancora aperti non danno certo l’idea di quanta vitalità vi si dovesse registrare fino a pochi decenni addietro. Dopo pochi passi, nella "Piazza delle uova", ecco la chiesa dei Cavalieri di Malta meglio nota come di San Giovanni Battista Gerosolomitano. Fondata nel 1428, ospitò la cosiddetta "Commenda dei cavalieri di Malta" la quale, con un’apposita concessione di Filippo II del 1555, poteva organizzare, il 23 marzo di ogni anno, la Fiera dell’Annunziata. Danneggiata nel 1558 e ricostruita dall’arcivescovo Pallotta, conteneva un affresco della Madonna di Costantinopoli oggi custodito nella chiesa delle Domenicane in Via Tribunali e che ancor prima, nel 1711, era stato portato nell’omonimo convento che sorgeva dov’è l’attuale palazzo della Prefettura. Nel 1852 fu ripristinata a cura del duca Spiriti. Sul portale d’ingresso vi è impresso lo stemma dell’ordine di Malta. All’interno, croce lignea dipinta settecentesca che si portava in processione il venerdì santo, altra croce processionale di ignoto argentiere del sec. XIX, gruppo di statue (Gesù, Santa Rita, Addolorata, Santa Liberata, Annunciazione) di anonimi scultori dell’800, bel crocifisso ligneo sei-settecentesco. Sulla parete destra, l’Annunciazione, dipinto settecentesco forse del Pascaletti; sull’altare, il Battesimo di Gesù forse di Rocco Ferrari (9).

Sul palazzo di fronte sono ancora visibili due meridiane. Poco più avanti, la Piazza Piccola o "Piazza dei pesci" ove un tempo era in bella evidenza la statua di Giugno, oggi posta in Corso Mazzini e nella quale avveniva la vendita del pesce, con odori e rumori caratteristici di questi ambienti. Era chiamata "piccola" per distinguerla dalla "grande", ma si chiamò anche dei "mercanti" o delle "chianche", termine che deriva dalle panche sulle quali i macellai lavoravano e vendevano le carni. Alla fine del ‘500, come si rileva da un disegno rinvenuto alla Biblioteca Angelica di Roma, a fianco delle "chianche", v’era una fontana pubblica detta "dello Mastro Andrea" e il ponte che vi prospetta, era chiamato "Ponte di Santa Maria per andar alla beccaria". Nel 1799 vi venne piantato uno degli alberi della libertà.

A sinistra, Via Galeazzo di Tarsia umanista del ‘500, e, sulla destra, l’omonimo palazzo (10) costruito intorno al XV secolo. Il portone è in pietra tufacea decorato a larga modanatura. Dentro due nicchie decorate da festoni di frutta, sono posti i busti di Minerva e di Marte, sul prospetto posteriore ve ne è una terza nella quale è inserito un busto di soggetto ignoto. Dal 1758 la struttura ha subito un processo di decadimento fino ai giorni nostri. Ancor oggi, un atrio asimmetrico segnato sul prospetto posteriore da un’ampia apertura ad arco collega le due strade che delimitano l’edificio.

Sempre su Via Gaeta, dopo aver oltrepassato la strada che porta al ponte San Francesco, sulla sinistra, si erge il palazzo Vitari, più avanti sulla destra, resti di una chiesetta, forse di jus patronato di questa famiglia. A questo punto il vicolo diventa più stretto; salendo, si noti, sulla sinistra, una vecchia torre medievale, più avanti, si è nuovamente in Corso Telesio. Solo pochi passi, ed eccoci di fronte al vecchio palazzo di Città costruito nel primi del ‘600 dalla Confraternita di Santa Maria del Popolo. Dopo una sua utilizzazione come conservatorio, venne soppresso nel 1816 e destinato a sede del Decurionato cittadino; l’amministrazione civica ne prese possesso nel 1831 e fu sede municipale fino al 1969, anno in cui fu inaugurato il nuovo Palazzo dei Bruzi. Una lapide posta all’esterno commemora Matteo Renato Imbriani-Poerio e, nell’atrio, una seconda, l’avvocato Alfonso Salfi sindaco di Cosenza dal 1895 al 1900. Il soffitto della sala del Consiglio dipinto da Rocco Ferrari nel 1889 con ritratti di uomini illustri della città e alcuni arazzi creati da Paolo Veltri nel 1903 non esistono più per il degrado a cui è stato sottoposto l’edificio negli ultimi anni. C'era anche un affresco di Enrico Salfi raffigurante Bruto che condanna i propri figli (11).

Proseguendo, si giunge in Piazza Duomo la vecchia "Piazza Grande" cuore palpitante della Cosenza ottocentesca testimone di ogni sorta di avvenimento di primo piano che caratterizzava la vita della città. Fu nota anche come Piazza del Seggio per la sua vicinanza col "Sedile" e, a tal proposito, occorre notare, come si rileva dalla "Cronaca del Frugali", che vi erano posti dei sedili in tufo, accanto ai quali, sorgeva la "Fontana della Piazza". Dal XVI secolo in poi, venne chiamata "Piazza degli aromatici e degli speziali" perché vi avveniva la vendita di farmaci confezionati su eleganti banconi pieni di bilance, alambicchi e recipienti (12).

Sulla sinistra, si apre Via Campagna, meglio nota come Vineddra da’ nive dove per molti anni aveva luogo il commercio della carbonella e della neve proveniente dai monti della Sila, utilizzata per la confezione di sorbetti e per rinfrescare le bevande; tutto ciò fino all’installazione dell’energia elettrica. Tornando alla Piazza Grande, si rimane affascinati dalla visione che ci si presenta.

Il Duomo è tra i più famosi e particolari edifici sacri dell’Italia Meridionale. Le sue origini sono ignote, ma, stando all’impostazione planivolumetrica, ad alcuni elementi architettonici superstiti e ai risultati di numerosi saggi effettuati alla fine degli anni ‘40, si può ritenere opera della metà dell’XI secolo. Il 9 giugno 1184 un disastroso terremoto che sconvolse Cosenza e la sua provincia, provocò il crollo della chiesa sotto le cui macerie finirono l’arcivescovo Ruffo che officiava le sacre funzioni ed il popolo dei fedeli. La ricostruzione fu lenta; un impulso determinante venne dato dall’arcivescovo Luca Campano già abate alla Sambucina di Luzzi, perciò appartenente all’ordine cistercense, che vi impresse una forma gotica appresa nello studium artium di Fossanova e nella casa madre di Casamari. Il 1222, alla presenza dell’imperatore Federico II, il Duomo venne solennemente consacrato; in quell’occasione, secondo la tradizione, il sovrano fece omaggio alla chiesa cosentina di una preziosa croce reliquiario della quale si parlerà più avanti. Nel corso della sua lunga storia il sacro tempio subì numerose manomissioni, a volte per necessità, spesso solo per aderire a mode o gusti del tempo. E’ certo il caso dello stravolgimento effettuato dall’arcivescovo Capece Galeota che, verso la metà del Settecento, fece ricoprire l’intera chiesa da una sovrastruttura barocca che, oltre a cancellare le linee originarie, provocò la dispersione e la distruzione di numerose opere d’arte. Sempre con le stesse premesse, nella prima metà dell’800, volendo scimmiottare le chiese angioine di Napoli, l’arcivescovo Narni Mancinelli trasformò la facciata in stile gotico stravolgendone ulteriormente i connotati. Sarà necessario giungere alla fine del XIX secolo per avere, con l’arcivescovo Camillo Sorgente, una fase di rinascita per il Duomo.

Utilizzando la sapiente opera dell’architetto Pisanti, che inizialmente era stato chiamato a redigere un progetto di restauro che tenesse conto delle linee barocche ancora esistenti all’interno, vennero portate alla luce le antiche arcate della primitiva chiesa e tutte le altre linee originarie. Una vecchia polemica avvolge ingiustamente l’architetto accusato di avere travisato la forma dell’abside e di avere introdotto elementi falsificanti, ma non si tiene conto che proprio questi interventi erano stati caldeggiati soprattutto da un esimio storico d’arte del tempo, il Bertaux che aveva intravisto nella chiesa cosentina analogie con la chiesa di Bonlieu (Drôme) in Francia. Negli anni quaranta, sotto la guida dell’arcivescovo Aniello Calcara, i lavori, finalmente vennero completati. La facciata presenta una divisione in tre parti nello sviluppo trasversale della zona basamentale corrispondente alla divisione interna in tre navate, ed è dominata da una antico rosone inizialmente polilobato con due rosoni più piccoli, quadrilobi, che sovrastano i portali; il tutto in stile gotico cistercense ravvisabile anche nell’Abbazia Florense di San Giovanni in Fiore. L’interno, a tre navate con otto campate, ha una copertura lignea nelle navate e a volte nelle absidi. I pilastri sono collegati da archi a tutto sesto. Lo sviluppo longitudinale è di mt. 49, mentre la larghezza è di mt. 21. Il transetto, posto ad una quota più alta di mt. 1,50 rispetto all’aula, ha pilastri a fascio che lo suddividono nel quadrato di crociera dai due bracci laterali. La sua copertura, a volte ogivali, ha costoloni di ricca modanatura nascenti dalle colonne angolari dei pilastri nella crociera e da mensole nei due bracci. La torre, radicalmente rinnovata dal restauro del Pisanti, e sovrastante l’intersezione del transetto, si sviluppa quadrata, ad un solo piano e abbellita da una serie di archetti acuti che poggiano su colonnine binate (13).

A sinistra cominciamo la visita della cappella della Madonna del Pilerio (14). Come riporta la tradizione, la Madonna del Pilerio salvò i Cosentini dalla terribile pestilenza che imperversava nella città e in gran parte d’Italia nel 1576. Mentre il popolo implorava la Vergine perché debellasse il terribile morbo, un fedele rimasto anonimo, che pregava innanzi ad una immagine dipinta su tavola, notò sulle guance della Vergine un segno che somigliava al tipico bubbone pestifero. Era il segno che la Madonna aveva voluto attrarre su se stessa il morbo mortale, liberandone i suoi devoti di Cosenza e dintorni. Per questo il popolo, radunatosi per una testimonianza di fede, la proclamò protettrice della città. Nel 1603, per facilitare l’afflusso dei fedeli provenienti da tutta la provincia, l’arcivescovo Costanzo fece sistemare il quadro in un pilastro della navata centrale di fronte alla porta piccola. Da pilastro (piliere), in prosieguo di tempo, venne corrotto il nome in pilerio, da qui Madonna del Pilerio. In realtà tale denominazione esisteva anche cinquant’anni prima ed è anche probabile una sua derivazione dal culto spagnolo della Madonna del Pilar.

La cappella venne eretta su progetto di Andrea Maggiore e realizzata nel 1777. Sopra l’altare barocco composto da marmi policromi è collocato il quadro della Vergine del Pilerio al quale i Cosentini ricorsero ancora per lo scampato pericolo del terremoto del 1783. Il 10 maggio 1981 il Duomo di Cosenza è stato elevato a Santuario della Vergine SS. del Pilerio da mons. Trabalzini. Dal punto di vista artistico, il dipinto non è stato mai considerato opera di pregio dagli storici locali. Invece, dopo il restauro effettuato a cura della prof.ssa Maria Pia di Dario, che di nascosto dai fedeli dovette portare la tavola presso i locali del gabinetto del restauro, venne fuori uno splendido originale della fine del 1.200. Sempre secondo la Di Dario, l’opera eseguita durante l’ultimo scorcio della dominazione sveva o forse già all’inizio della presenza angioina, rappresenta uno dei prodotti artistici più rilevanti dei un vasto movimento artistico-culturale che ebbe a subire sia gli influssi del bizantinismo aulico delle opere messinesi del secolo XIII, sia le affinità delle ricerche plastiche perseguite dai maestri toscani pre-cimabueschi fino ad inserirsi in una linea che unisce Monreale, Messina e la Campania. Secondo Giorgio Leone, invece, l’area va circoscritta intorno a Messina. Presenta il mantello rosso sulla testa, simbolo della regalità, sovrammesso sul manto blu (mafarion), tipico delle chiccotisse, cioè delle icone aventi come modello la madonna del monastero di Chicco a Cipro fatto costruire da Alessio I Comneno. Altro epiteto che viene adoperato per la Madonna del Pilerio, è quello di galactrototrophusa, cioè allattante. In questo caso, l’area di pertinenza dell’opera appare impregnata dell’ondata di cultura costantinopolitana importata in Campania. Si spiega in tale modo la forte analogia con opere quali la Madonna di Montevergine in Abbruzzo, le due madonne di Aversa, la Madonna di Santa Maria de Flumine, presso Amalfi, ora al museo napoletano di Capodimonte.

In sintesi, anche se l’opera risente di sostrati antichi, come per esempio nel Pantocratore di Monreale, se si osservano le dita della Vergine, vi si intravedono anche elementi orientali arrivati a Messina intorno alla fine della seconda metà del XII secolo (1182 - 1195), testimoniate da un gruppo di miniature legate al nome del Vescovo Richard Palmer, che la critica tende a ritardare di qualche decennio per accostarle all’Eleusa del Messale madrileno, un manoscritto conservato a Madrid (fol. 80, ms 52). L’opera quindi va collocata sullo scadere del XIII secolo e mostra di essere coeva della consorella attribuita dalla Di Dario a Giovanni da Taranto custodita nella cinquecentesca chiesa delle Vergini di Cosenza. Tale datazione, si ribadisce, risente di influssi più antichi, e si ricordi che l’osservazione attenta dell’unico vetro superstite dell’aureola, mostra una strettissima rassomiglianza con le tessere adoperate nei mosaici della Cappella Palatina, di Monreale e della Martorana. Nell’altare sottostante il dipinto, sono custoditi i resti dei Santi Eugenio e Silvano; nelle pareti dell’abside, si aprono due nicchie che contengono le statue della Madonna del Pilerio e dell’Immacolata. Nella parete di sinistra si trovava l’Immacolata di Luca Giordano, oggi all’episcopio, al suo posto c’è lo sposalizio della Vergine di Giambattista Santoro con, sulla destra in basso, l’autoritratto dell’artista. Sul lato opposto, tela di anonimo dell’800 col medesimo soggetto.

Più avanti, la cappella dell’arciconfraternita Orazione e Morte fondata nel 1689 e rifatta nel 1756. Sopra l’altare centrale è collocata una pala raffigurante la Madonna delle Grazie datata 1770; sul soffitto, un dipinto ispirato ai Fratelli Maccabei; sulla volta dell’abside è dipinta La Pietà; tutte e tre le opere appartengono ad ignoti artisti locali del ‘700. Il pittore F. Bruni dipinse, invece, nel 1765, le pareti laterali dell’abside dedicate a Tobia e ai miracoli di San Raffaele Arcangelo. Di autore anonimo sono i quattro ovali posti nella navata della cappella, sempre dedicati a Tobia: Preghiera di Tobia e Sara, Tobit che riacquista la vista, l’Arcangelo Raffaele si rivela a Tobit e a suo figlio Tobia, Ritorno di Tobia dalla Media. Ignoti sono, invece, i soggetti delle altre due opere in alto, anch’esse di forma ovale, raffiguranti rispettivamente un santo ed un laico, probabilmente un mecenate che provvide a finanziare i lavori della cappella. Di pregevole fattura a cura di maestranze locali della fine del ‘700, sono gli stalli in legno dove sedevano i confratelli. A destra dell’abside furono poste le spoglie dei Fratelli Bandiera e quelle dei loro compagni. Nel 1867 furono traslate a Venezia e sepolte nella chiesa dei Santi Giovanni e Paolo. Tuttavia quelle degli altri martiri cosentini, riposano ancora nella cripta della cappella. In questo posto si riunivano gli aderenti all’Accademia dei pescatori Cratilidi fondata dal can. Gaetano Greco nel 1756.

Più avanti, la sagrestia un tempo ricca di opere d’arte oggi sparse chissà dove. E’ circondata da armadi di legno di noce costruiti da artigiani roglianesi sormontati dallo stemma dell’arcivescovo Capece Galeota che ne aveva commissionato la costruzione, e da un crocifisso seicentesco. Al centro del soffitto, lo stemma dell’arcivescovo Pontillo. Fino agli anni trenta, numerose tele adornavano questo locale, tra le più famose, l’Immacolata del Pascaletti, oggi all’episcopio. Nel vano antistante, sono conservati degli stemmi appartenenti a vari arcivescovi ed alcune statue di santi. Accanto alla sagrestia, troviamo una delle cappelle più antiche, eretta sul terreno del cimitero del Duomo, quella dei Santi Filippo e Giacomo appartenente alla Congrega dei nobili Cosentini col fine di «servire ed accompagnare coloro che dovevano giustiziarsi». Numerose opere abbellivano le pareti, ma quelle superstiti versano in uno stato di avanzato degrado.

Negli ultimi tempi, interessanti scoperte rendono affascinante lo studio di questa cappella ove, quasi sicuramente, avevano sepoltura i nobili del Sedile. A questa conclusione si potrebbe giungere dopo un attento esame dei locali rinvenuti sotto il pavimento che certamente erano qualcosa di più di una serie di cripte e nei quali, pare, avveniva l’insieme dei rituali della sepoltura (15).

Rientrando nella chiesa, a sinistra, il corridoio che comunica con l’ex seminario; più avanti, la cappella dell’Assunta fondata intorno al 1609 a cura della confraternita dei Mercadanti. Attualmente i locali sono in fase di sistemazione e, in condizioni di agibilità, presentano un altare riccamente adornato sormontato da una nicchia contenente una statua lignea dell’Assunta a figura intera scolpita a tutto tondo e dipinta al naturale. L’opera, attribuita allo scultore Gaspare Castelli di Napoli, fu eseguita nel 1870. Dal vano antistante, ove in una nicchia si custodisce un Cristo alla colonna, opera lignea di ignoto dell’800, è possibile scorgere la struttura esterna dell’abside.

Tornando nella chiesa vera e propria, a sinistra, nel transetto, ecco una scultura che è sui libri di storia dell’arte come uno dei primi esempi di gotico francese in Italia si tratta del Mausoleo di Isabella d’Aragona (16), moglie di Filippo l’Ardito re di Francia, morta mentre attraversava il fiume Savuto per andare incontro al marito, di ritorno da Tunisi dopo la sfortunata crociata che aveva visto anche la morte di re Luigi IX, poi San Luigi dei francesi, e dell’altro figlio Giovanni Tristano. Dell’opera di artista francese si era persa ogni traccia, perché murata durante il rifacimento settecentesco della chiesa. Fu ritrovata casualmente nel 1891 mentre si effettuavano dei lavori nei pressi della parete sinistra del transetto. Appare incorniciata in una trifora gotica trilobata e rappresenta la Madonna al centro e, ai lati, da una parte, con gli occhi chiusi, la regina Isabella, dall’altra, in atto di preghiera, Filippo l’Ardito.

C’è da dire che la pregevole scultura rimasta per lungo tempo sepolta sotto una coltre di intonaco reca ancora visibili le mutilazioni dei personaggi per l’incuria a cui è stata sottoposta. All’epoca del suo ritrovamento, la cultura artistica della regione si divise circa l’identificazione delle figure modellate e dell’artista che ne era autore. Qualcuno arrivò ad ipotizzarne un’opera di Giovanni Pisano. Anche l’apparente smorfia di dolore di Isabella indusse qualche studioso a ritenere che quel volto fosse frutto di un calco funerario; più verosimilmente si tratta di una impurità del materiale che, notoriamente, non è il marmo ma la pietra di Calabria. Poco più avanti, la Madonna del Rosario di Rocco Ferrari da Montalto del 1909 autore anche di una Sacra famiglia posta nell’altra absidiola, poi gli affreschi: l’Assunta e i 12 Apostoli eseguiti da Domenico Morelli e Paolo Veltri nel 1899. Sulla navata destra, il sarcofago di Meleagro (17) di epoca tardo antica, ma anche probabile rifacimento medievale su uno schema frequente, contenente delle ossa che potrebbero appartenere ad Enrico lo Sciancato figlio di Federico II, secondo alcuni morto suicida, secondo altri, per mano dello stesso imperatore.

Da osservare ancora un crocifisso ligneo del ‘400, posto in alto, nell’abside, e proveniente dalla cappella della famiglia Telesio, oggi non più esistente, che probabilmente, conteneva anche la tomba del filosofo Bernardino improvvidamente dimenticata e dispersa sia dalle autorità ecclesiastiche che da quelle municipali, per non parlare del disinteresse della famiglia stessa, sulla ribalta della vita cittadina sin dal XIII secolo. Nei pilastri in prossimità del transetto, resti di affreschi del XIV secolo raffiguranti l’Annunciata e l’Angelo annunciante. Accanto, frammenti del primitivo pavimento di epoca sveva rinvenuto in una antica cappella.

All’esterno della cattedrale, in un'apposita edicola, è custodito un dipinto su tela raffigurante la Madonna degli Orefici. Si tratta di opera secentesca esposta nella nicchia il 18 aprile 1603. Anch’essa è oggetto di venerazione, ma il suo livello artistico è modesto anche se si ispira all’immagine di S. Maria Maggiore a Roma.

Lo stesso tratto di strada che congiunge Piazza Duomo a Piazza Parrasio era nota come "strada degli orefici" per la prevalente presenza di negozi di orefici, gioiellieri ed orologiai. Più sopra, dopo il palazzo Compagna, posto sulla sinistra del "Corso", si apre Piazza Parrasio, sulla quale si affaccia il palazzo Spada, ma, soprattutto, il palazzo arcivescovile (18). Questo edificio appartenne alla famiglia Cicala che lo alienò in favore dell’arcivescovo di Cosenza nel 1523. Nel 1578 vi vennero sistemati temporaneamente i padri della Compagnia di Gesù; la decisione dell’arcivescovo Evangelista Pallotta non venne accolta di buon grado dal popolo, ma i Gesuiti vi restarono fino al 1599 anno in cui fu fondata la loro chiesa. Nel 1811 i francesi vi posero l’Intendenza della provincia. Con la Restaurazione borbonica, nel 1819, venne spostata nella struttura dell’ex monastero della Madonna di Costantinopoli.

Il seminario fu fatto costruire a partire dal 1892 dall’allora rettore Francesco Parise; in questi locali attualmente è ospitata la Biblioteca Nazionale. Nell’antistante piazza, per anni, ebbe luogo la vendita di attrezzi agricoli e opere in ferro battuto. Passando sotto un imponente portale al cui centro è posto uno stemma nobiliare, si accede agli uffici della Curia. Nella stanza del presule è posta una magnifica tela di Luca Giordano raffigurante l’Immacolata e una con lo stesso soggetto dipinta dal Pascaletti. Conservate in cassette di legno sono pure due statuine in avorio (San Sebastiano e Cristo alla colonna), opere di Angelo Rinaldi. In attesa di essere posto in un apposito museo del quale si parla da anni vi è pure un calice d’oro cesellato a sbalzo che poggia su una base costituita da 6 edicole, santi e finestrelle finemente lavorate. Vi si custodisce anche una corona dorata di oreficeria napoletana del XVII secolo commissionata ai tempi dell’arcivescovo Giobatta Costanzo. Il fiore all’occhiello del costituendo museo che vedrà la luce presso il vecchio Palazzo Arnone o dei Presidi, è certamente la Stauroteca (19) a tutt’oggi (anno 1995) custodita nei locali della Soprintendenza.

Secondo la tradizione, si tratta di un dono dell’Imperatore Federico in occasione dell’inaugurazione del Duomo. Nessun documento comprova tale donazione, ma considerati i gusti del sovrano per l’arte ed esaminate le caratteristiche dell’opera, non si ha motivo di sostenere una tesi diversa. La croce reliquiario, formata da sottili foglie d’oro e fissata su un’anima di legno, adornata da filigrana ed altri intrecci, è il frutto di artisti conoscitori della miniatura bizantina padroni della tecnica dell’iconografia orientale. Il "recto" si compone di cinque medaglioni; quello centrale rappresenta Cristo Pantocratore, nei rimanenti quattro, vi sono gli Evangelisti seduti intenti a scrivere. Il "verso" rappresenta Cristo sul "Suppedaneum" con i piedi inchiodati in posizione accostata. In alto, sul capo, la tavola riporta l’abbreviazione greca ICXC (per Gesù Cristo). Sul braccio orizzontale le parole che tradotte significano: la crocifissione. In basso riposa Adamo, il primo uomo, del quale è visibile solo il cranio. Nel medaglione sopra la croce vi è l’Arcangelo Michele e nei due laterali, a sinistra, la Madonna, a destra San Giovanni Battista insolitamente rappresentato come un uomo anziano con la barba. Nel medaglione in basso è raffigurata una tipica rappresentazione dell’Etoimasia, cioè la preparazione del trono per il ritorno di Cristo. Sul trono coperto, l’uno accanto all’altro, vi sono una colomba, un calice e quattro chiodi. Ai lati una lancia, un drappo ed un ramo di issopo. Dietro si leva la croce con la corona di spine.

Tutti questi oggetti sono simboli della passione. In quanto all’attribuzione v’è da fare un discorso a parte. Per lungo tempo è stata ritenuta produzione di artisti bizantini e la stessa denominazione "croce bizantina", lo testimonia. Si tratta in realtà di opera proveniente dalle officine reali di Federico II, meglio note come "tiraz" in lingua araba e "ergasterium" in latino e prodotta in un ambiente in cui confluivano esperienze culturali musulmane, bizantine ed occidentali. La stauroteca poggia su una base d’argento dorato con pianta ottagonale e lato esterno sagomato e trilobo. Il fusto si erge corredato da finestrelle, gugliette e fogliame di gusto gotico. La parte mediana del piedistallo è contornata da otto piccoli tabernacoli che ospitano le statuine degli apostoli. Sul piede, in bella evidenza, appaiono degli stemmi uno dei quali con l’arma di Torquemada. L’oggetto, opera dell’oreficeria spagnola del XV secolo, di chiara impronta gotica, fu donata quale supporto della stauroteca.

Dalla piazza dedicata al famoso umanista Aulo Giano Parrasio inizia la Giostra Nuova, così chiamata per distinguerla da quella "Vecchia". Iniziata nel 1813, fu completata dal sindaco Davide Andreotti negli anni sessanta; era caratterizzata dalla vivacità della borghesia del tempo. La natura pianeggiante favoriva le passeggiate, le attività del tempo libero e la concentrazione di gran parte della vita culturale del tempo; vi avevano sede famose librerie (Aprea) e testate giornalistiche (La Lotta e La Cronaca di Calabria).

Accanto all’arcivescovado, il caffè Renzelli, ex Caffè Gallicchio, ritrovo di intellettuali e borghesi dell’800. Poco più avanti, un sistema di paraste d’angolo in tufo, è quel che resta delle primitive caratteristiche del vecchio palazzo Cavalcanti il cui aspetto originario doveva essere notevolmente bello; costruito nella seconda metà del ‘500, fu restaurato nel 1772, come testimonia una lapide posta sulla porta d’ingresso di Via del Liceo. Fino a quell’epoca, era costituito da un piano terra adibito ad attività commerciali caratterizzato da un sistema di paraste racchiuse in una cornice. Lo stesso schema si ripete ancora nel piano superiore, nel quale, però, la cornice è spezzata dalle successive aperture di balconi. Noto fino a qualche tempo addietro come esempio di architettura catalana, viene, invece, recentemente, inserito in quel vasto itinerario che ha contrassegnato l’attività di un noto organaro ed architetto calabrese attivo tra la fine del ‘400 e gli inizi del ‘500. Si tratta di Giovanni Donadio detto il "Mormando" dal suo paese di origine, Mormanno, posto all’estremità settentrionale della provincia cosentina. Secondo la Di Dario, appunto, l’edificio deve essere letto come «affermazione assai precoce del tipo di composizione mormandea di cui le ornamentazioni angolari ripetono il caratteristico linguaggio nei capitelli ionici con ovali e scanalature di ascendenza maianesca, su due livelli tanto che si potrebbe anche sospettare che le ornamentazioni siano solo le parti superstiti di fasce marcapiano poi abolite per la costruzione dei balconi; a cui dovevano far riscontro lesene verticali simili a quelle angolari e a quelle rimaste nella parte inferiore sinistra, racchiudendo la volumetria dell’edificio in un telaio di scansioni ritmiche come nei palazzi napoletani Di Capua e Corigliano» (20).

Sulla destra, Via del Liceo, meglio nota come La calata della corda che ricorda una leggenda popolare maturata al tempo del viaggio di Carlo V a Cosenza, avente per oggetto una fuga d’amore dal monastero delle Vergini di una educanda, che, per raggiungere un suo spasimante si calò appunto con una corda dalle finestre del convento. Più avanti, sempre sulla destra, Via Antonio Serra in fondo alla quale domina l’ex Liceo Telesio. La costruzione risale al 1599 quando venne costruita la chiesa dei Padri Gesuiti dedicata a Sant’Ignazio Loyola accanto al monastero dell’ordine (21).

L’avvenimento dimostra come fosse potente questa "compagnia", mentre infatti la chiesa di San Nicola e i conventi del Carmine e di San Domenico erano sorti al di là dei fiumi per la carenza di suoli edificabili, i Gesuiti, forti della loro nascita dalla Controriforma, erano riusciti ad inserirsi tra i monasteri delle Clarisse e delle Vergini che pure non difettavano di appoggi importanti e che non vedevano di buon occhio questa forzatura. Nel 1767, in seguito alla loro partenza da Cosenza, la chiesa venne demolita. Nei primi dell’800, con un decreto dell’Intendente venne costruito un teatro (22).

A lavori terminati, nel 1830, fu dedicato a Ferdinando di Borbone. Nel 1850, su richiesta dei padri Gesuiti che erano rientrati in città, il Teatro Ferdinando venne demolito; furono risparmiati il pronao templare con le colonne doriche ed il frontone in stile neoclassico. Più in basso, il palazzo de Matera col suo bel portale con stipiti ad arco in pietra sormontato dallo stemma di famiglia raffigurante un elmo ed una benda con tre conchiglie e altri due stemmi laterali con festoni floreali. Di fronte l’ex chiesa di Santa Chiara edificata nel 1578 e soppressa dopo l’Unità d’Italia. I locali, in parte sono adibiti a caserma dei carabinieri, ed in parte utilizzati dalla Biblioteca Civica. Particolarmente bello è il chiostro con colonne che sorreggono archi acuti. Riscendendo e attraversando il Corso Telesio si è in Via Tommaso Cornelio col palazzo Collice, sede della "Manifattura della giostra"; sulla sinistra ha inizio il Cafarone ove, nel XII e XIII secolo, era il quartiere ebraico detto Giudecca e poi Cafarone (da Cafarnao, sede del giudice legislatore?). Anticamente vi era anche una sinagoga. Oggi vi fa spicco il palazzo Gervasi, con ampio androne sulla cui volta è decorato lo stemma di famiglia, appartenuto al celeberrimo capitan Peppe, capo della sommossa del 1648 (23).

Risalendo sul Corso, ecco la mole massiccia del palazzo della Cassa di Risparmio; sorge sull’area del demolito palazzo Jacucci. La Cassa nacque nel 1861 (24); iniziò le operazioni l’anno successivo in un locale del palazzo Campagna, di fronte alla Cattedrale; poi la sede venne spostata presso il palazzo della famiglia Spada in Via Padolisi, ma anche qui la struttura si rivelò insufficiente e si decise la costruzione di una sede nuova inaugurata nel 1910.

Accanto, il palazzo Sersale. Più noto come palazzo Telesio per avervi dimorato negli ultimi tempi l’omonima famiglia. Fu costruito nel 1592. La facciata, decorata di basamento e lesene a bozze, si presenta col suo bel portale ad arco dominato dallo stemma dei Sersale (fondo azzurro con strisce dorate oblique) scolpito a rilievo su una lastra di marmo. L’androne, con fughe di sedili da entrambi i lati, ha una volta a botte sul quale è affrescato lo stemma del casato, purtroppo in stato di avanzato degrado.

A sinistra, il cinquecentesco palazzo Passalacqua addossato ad un bel giardino all’italiana.

Ancora qualche passo ed eccoci alla Piazza XV marzo che ricorda i moti insurrezionali del 15 marzo 1844. Al centro è posto il monumento a Bernardino Telesio il cosentino più famoso di tutti i tempi, il primo degli uomini nuovi. La statua realizzata da Achille D’Orsi nel 1914 poggia su un piedistallo in cui sono incisi due bassorilievi raffiguranti l’Arresto di Telesio giovane e Telesio che insegna filosofia. Durante il periodo fascista era stata ubicata in Piazza XX settembre (la piazza dell’ex stazione ferroviaria) nella Cosenza nuova. Accanto, la statua della Libertà opera dello scultore Giuseppe Pacchioni di Bologna, catturato e condannato al carcere a vita dopo il fallimento della spedizione dei fratelli Bandiera; successivamente i Borboni gli condonarono la pena. Nel 1878 scolpì la statua in marmo bianco raffigurante l’Italia libera.

Sulla piazza prospetta il palazzo del Governo (25) costruito tra il 1844 e il 1847 sulle strutture del vecchio monastero di Santa Maria di Costantinopoli ove il vescovo del tempo aveva fatto custodire un quadro della Madonna ritenuto miracoloso che proveniva dalla chiesa di San Giovanni Gerosolomitano. Al monastero, che era appartenuto alle suore domenicane, nel 1720, era stata addossata una chiesa dedicata sia alla Madonna che a Santa Rosa da Lima e a Santa Rosa da Viterbo. Dopo la soppressione del monastero, nel 1807, fu utilizzato quale alloggio per i soldati, e tra il 1815 e il 1820, vi furono effettuati degli adattamenti per trasferirvi i locali dell’Intendenza. Il 15 marzo 1844 vi rimasero uccisi degli insorti cosentini nel tentativo di abbattere il portone, e nel 1860, il 31 agosto, vi pernottò il generale Garibaldi dopo aver parlato ai cosentini dal balcone centrale.

Si dice che, anche in quell’occasione - perché ne parlò pure a Rogliano - promise le terre silane ai contadini. Com’é noto, però, non se ne fece nulla perché egli era un soldato e questi compiti spettavano ai politici. Da quell’episodio, pare che il fiorente artigianato locale di pipe, che soleva modellarle con delle facce di uomini, preferisse ispirarsi al volto di Garibaldi, perché quello che aveva detto a proposito delle terre silane "era andato in fumo".

Tornando al palazzo notiamo come dall’Unità d’Italia in poi fosse stato utilizzato come sede della Prefettura e della Provincia. Nel cortile è posto un busto di Vittorio Emanuele II. Il salone del Consiglio è senza dubbio da visitare. Le sue decorazioni furono accellerate nel 1879 in occasione della visita in città di Umberto e Margherita di Savoia. Quattro affreschi più grandi raffigurano le personalità preponderanti della storia del Meridione: Federico II e Ruggero d’Altavilla, e della cultura italiana: Dante e Macchiavelli. Il genio cosentino, poi veniva raffigurato con quattro medaglioni recanti i vanti cittadini nei vari campi della cultura: Bernardino Telesio (filosofia), Antonio Serra (economia), Gian Vincenzo Gravina (letteratura), Gaetano Argento (diritto). Ognuno è circondato da altrettante allegorie (le dottrine filosofiche, il commercio, la cultura, la giustizia). In alto, affreschi su cui sono effigiati: Marte e i simboli della casa reale, della caccia, della bellezza, della gloria, della sapienza e della bontà. La volta a cui quattro finestre assicurano una luce viva, reca, al centro un affresco raffigurante la gloria della provincia di Cosenza. Tali affreschi, eseguiti nel 1874 da S. e F. Andreotti, sono incorniciati in una ricchissima serie di decorazioni.

Usciti dall’edificio e ritornati nella piazza, di fronte, ecco il bel prospetto del Teatro Comunale (26) dedicato al pianista Alfonso Rendano. Soppresso il vecchio Teatro Ferdinando, venne utilizzato, come ripiego, un baraccone in legno eretto in Piazza Prefettura. Solo nel 1877, su progetto dell’architetto Nicola Zumpano, fu iniziata la costruzione del nuovo edificio subito interrotta per mancanza di finanziamenti. Nel 1905, a lavori completati, un improvviso crollo lo rese nuovamente inagibile. Fu necessario attendere altri 4 anni quando, il 20 ottobre 1909, tre grandi opere: l’Aida, il Mefistofele ed il Rigoletto, inaugurarono uno splendido teatro a cinque ordini di palchi rivestiti in velluto rosso. Non solo, il tutto fu arricchito delle decorazioni della sala del napoletano Giovanni Diana e di quelle del soffitto del famoso Enrico Salfi. Il sipario è un’opera d’arte a sé stante: dipinto da Paolo Veltri su disegno di Domenico Morelli, ritrae le nozze di Luigi III d’Angiò con Margherita di Savoia. Il secondo conflitto mondiale vi causò pesanti danni aggravati dal saccheggio effettuato ad opera di sciacalli. Finalmente il 1967 con la "Traviata" venne nuovamente inaugurato il teatro comunale, trasformato, con apposito decreto del ministero dello spettacolo, in teatro di tradizione.

Sul lato sinistro, ove oggi si erge il liceo Classico, era posto l’albergo Vetere. Sul lato destro, sorge il palazzo che ospita l’Accademia Cosentina (27) fondata ai primi del ‘500 da Aulo Giano Parrasio e illustrata da Bernardino Telesio. Vero tempio culturale cittadino, nel corso della sua lunga e tortuosa storia, ha segnato i momenti più esaltanti di Cosenza.

Dallo stesso piano si accede alla Biblioteca Civica (28) senz’altro una delle più fornite biblioteche dell’Italia Meridionale con tantissimi incunaboli, corali miniati del ‘500 e numerosissimi manoscritti; particolarmente ricco il fondo delle "Raccolte Calabre" e delle numerose donazioni di privati quali la "Raccolta Salfi". Ad una parete della sala studio, un dipinto del Salfi. Nel pianterreno sorge il Museo Civico (29) ricco di interessanti reperti i più importanti dei quali provenienti dalla contrada Michelicchio di Cerchiara, da Torre Mordillo, da Francavilla Marittima e da contrada Moio di Cosenza. L’attuale edificio venne costruito nel 1938 sul chiostro del monastero di Santa Chiara.

Sull’altro lato della piazza, ecco la Villa Vecchia impiantata nella seconda metà dell’800 su interessamento dell’allora sindaco Davide Andreotti.

Tornando un attimo sui nostri passi, di nuovo su Corso Telesio, all’altezza di Piazza Parrasio, s’inerpica il Vico Padolisi che porta alla famosa Via Padolisi, senza dubbio una delle strade più significative del centro storico; percorrendola ci si sente attorniati da vecchi edifici testimoni di antiche glorie ed attualmente semi abbandonati. Oggi s’interrompe in Via Biagio Miraglia, ma una volta arrivava agli Archi di Ciaccio. A metà strada, salendo, sulla destra, il palazzo Orsomarsi, vecchia casa De Martino, il cui prospetto principale è caratterizzato dal bel portone e quattro balconi in ferro battuto con decorazioni a stucco in stile barocco.

Sulla destra l’edificio della benemerita "Minestra di San Lorenzo". Più avanti, a sinistra, si apre Piazza dei Follari (30) che sorse nel 1840 quando venne eliminato il giardino del monastero delle Vergini. In quest’area si vendevano i "follari" o "cuculli", nomi popolari dei bozzoli del baco da seta. La prosecuzione in salita di Via Padolisi, prende oggi il nome di Via Gaetano Argento illustre giureconsulto del ‘600; sulla destra ecco l’austero palazzo Quintieri, più avanti, sulla sinistra, il palazzo di Gaspare Sersale ove fu ospitato l’imperatore Carlo V nel 1535 in occasione di un suo soggiorno a Cosenza.

Come nota la Paolini, «la facciata suddivisa in tre piani con due cordolature orizzontali, riporta in posizione asimmetrica la doppia riquadratura del portale di cui la prima contiene lo stemma gentilizio con una iscrizione (Numquam tarda fuit mei, offici cura Caspar Sersalis Sellie dominus a fecit facta me conservat), la seconda, più grande, include il portale; quest’ultimo, ad arco ribassato composto da fasce a sezione plurima con raccordi tronchi all’interno, da capitelli scolpiti e dalle claviche "foglie di cardo" negli spazi tra i fianchi dell’arco e gli spigoli di riquadro, completa degnamente l’intera composizione del fronte prospettico. Di estremo interesse la rigorosa definizione spaziale dell’architettura di matrice durazzesco-catalana» (31). Tali elementi ricordano i motivi ornamentali del palazzo Di Diomede Carafa o in quello di Antonello Petrucci, a Napoli. A fianco, il monastero delle Vergini (32) nato dalla fusione dei due conventi cistercensi femminili di Santa Maria della Motta e di Santa Maria De Medio Domini Aegidi che accolsero anche le suore del convento di Santa Maria delle Fontanelle di Mendicino, prima cistercense, poi florense, poi benedettino.

Il convento destinato ad ospitare ragazze provenienti dalle famiglie nobili cosentine, fu soppresso nel 1808. Il portone esterno è in tufo decorato con una singolare conformazione a fasce concentriche che riquadrano il sistema inferiore architravato e delimitano la lunetta superiore; la porta interna è in legno intagliato. Sul portale, affresco di ignoto del ‘600 su cui è effigiato Sant’Emilio. All’interno su un altare di legno del 1576, addossato alla navata destra, una tavola cinquecentesca raffigurante l’Annunciazione, l’altare è tutto in legno scolpito e dorato, con ricco fastigio e colonnine, alla base delle quali è scolpito lo stemma gentilizio della famiglia Migliarese. Di fronte, la Madonna del Pilerio, splendida tavola del XIII secolo attribuita dalla Di Dario a Giovanni da Taranto (33). Intorno, sempre incassate in un ricco altare ligneo, quattro tele: Visitazione, Circoncisione, Adorazione dei Pastori, Adorazione dei Magi, tutte di autore ignoto del ‘500. Nell’abside è posta una pala d’altare del 1570 raffigurante Il Transito della Vergine; nella cimasa: Incoronazione della Vergine e alle basi delle colonne, due mezze figure di santi, opere di Michele Curia, meglio noto come "Maestro di Montecalvario". Infine, tre statue: l’Addolorata, l’Immacolata e Sant’Anna con la Madonna. Qua e là, elementi in tufo della primitiva chiesa. La cantoria in legno è del ‘600. Il soffitto, a piccoli lacunari, è stato rifatto nel 1980 in stile settecentesco. Il chiostro è composto da venti colonne di ordine toscano sulle quali si elevano archi a tutto sesto che sorreggono il loggiato sovrastante.

A questo punto, proseguendo sulla sinistra, siamo agli arcinoti Archi di Ciaccio, su cui poggia il palazzo del Contestabile Ciaccio costituito dalla facciata con due arcate ad arco ribassato ed elementi di un terzo arco aragonese (sec. XV). Nel ‘500 tale posto era noto come "Capopiazza" e vi terminava la Via Padolisi. L’edificio venne eretto sulla "consolare interna" dimostrando che il proprietario doveva essere un uomo molto potente se si poteva consentire un simile abuso edilizio.

Da Largo Vergini, dirigendosi in salita, sulla destra, ecco il quattrocentesco palazzo Falvo il cui portale di tufo bianco immette in un androne decorato nella volta con lo stemma di famiglia; da una scala si accede ad un pianerottolo posto su due campate a volta sorrette da mensole pensili di stile durazzesco-catalano.

Più avanti si trova casa Palazzi costruita da artigiani locali tra la fine del ‘400 e gli inizi del ‘500, rifatta dopo il terremoto del 1638. La porta d’ingresso presenta un’arcata a tutto sesto fiancheggiata da due capitelli ornati da maschere tragiche; la finestra laterale ha delle mensole con raffigurazioni di animali. Accanto palazzo Vercillo dei baroni di San Vincenzo la Costa. Da un vicolo sulla destra, si giunge alla Giostra Vecchia vera anima della Cosenza rinascimentale.

Tutta la zona compresa tra questa strada ed il Corso Telesio racchiude un inestimabile valore storico e culturale in stato di completo abbandono. A giudicare dai risultati degli scavi effettuati nella zona nel corso del XIX secolo, la Giostra Vecchia sarebbe compresa nell’ambito urbano della vecchia città romana e dell’ancor più antico impianto bruzio. Dal toponimo facilmente si deduce che il sito doveva essere il fulcro della vita della città con particolare riguardo alle attività del tempo libero, sfruttando la favorevole posizione pianeggiante della strada in contrapposizione alla scoscesità dei rimanenti quartieri. In ogni caso, alla funzione ludica certamente si sostituì quella rappresentativa divenendo sede di uffici pubblici e di palazzi signorili.

All’inizio dell’ampia strada, palazzo Maria Greco; a destra, palazzo Grisolia, di fronte l’edificio che ospitava il vecchio teatro Garibaldi. Poco più avanti, sulla destra, sul Vico I, è visibile un altro balcone settecentesco in ferro battuto appartenente al Palazzo Orsomarsi (lato posteriore). Il palazzo Magliocchi è ben riconoscibili dai balconi eternamente fioriti. Poco più oltre, sul Vico II, ecco il Palazzo Caselli (34) con evidenti segni di interventi effettuati in epoche diverse; ha la parte più a valle sicuramente costruita nel XIII secolo intorno alla quale, nel corso degli anni, si sviluppò il resto dell’edificio. Nel ‘500 dovette subire gli interventi più radicali e decisivi in ossequio ai gusti e alle mode del tempo considerando che ad abitarvi venne la nobile famiglia Caselli da Rossano. Bella la corte, suggestivo l’androne e il loggiato con colonne scanalate che sorreggono capitelli con varie forme. I portali sono in pietra lavorata e gli archi cinquecenteschi appaiono scolpiti a più facce. Sulla volta dell’androne è affrescato lo stemma di famiglia e sulla voltina dello scalone, Il Mito di Icaro. La parte posteriore, più antica, termina con un sopportico sulla Salita Giannuzzi Savelli. Alla fine della Giostra Vecchia, di fronte al palazzo Roberti, è posto il palazzo Bombini edificato nel ‘600 da maestranze roglianesi; ha due ampi portali (uno per ogni lato dell’edificio).

Dal palazzo si accede ad un giardino pensile caratterizzato da una lunga scalinata settecentesca. Addentrandosi per una stradina stretta, si giunge nei pressi del palazzo più comunemente denominato Archi di Vaccaro. Fu edificato nel XV secolo e, dal 1849 al 1850, vi fu ospitato Francesco De Sanctis, come si può rilevare da una lapide posta al lato dell’edificio. La suggestiva facciata si presenta con un porticato con tre arcate a sesto ribassato sorrette da pilastroni. All’interno sono visibili cornicioni, decorazioni ed archi appartenenti alla primitiva impostazione quattrocentesca; poi un cortile con pozzo e un altro portale munito di stipiti di pietra. Ancora qualche curva e dopo, le suggestive immagini degli Archi di Sambiase, eccoci di fronte alla chiesa di San Francesco d’Assisi (35). La fondazione si deve al beato Pietro Cathin da Sant’Andrea di Faenza, discepolo di San Francesco, il quale tra gli altri conventi eretti in Calabria nel 1221, fondò anche di quello di Cosenza, che venne edificato su un monastero benedettino distrutto dal terremoto del 1184, e che, probabilmente, era stato ancor prima basiliano. In ogni caso, fino al 1276, risulta abitato nuovamente dai Benedettini, successivamente dai Conventuali fino al 1434. Da quel momento passò agli Osservanti che vi fecero costruire il campanile ed il chiostro in pietra ed archi ogivali su pilastri prismatici; provvidero anche ad aggiungervi il refettorio, l’infermeria ed il dormitorio. Fino al 1578 vi fu anche lo studio generale dell’ordine e una scuola di miniatura di codici. L’Arcivescovo Sanfelice scelse questi locali quali sede per la sua Accademia dei Negligenti. Conobbe come il Duomo tutte le conseguenze dei terremoti disastrosi che hanno afflitto queste terre nel corso della loro lunga e travagliata storia; ci si riferisce in modo particolare a quello del 1638 e del 1854. Anche i bombardamenti dell’ultimo conflitto mondiale arrecarono danni gravissimi al monastero. La prima chiesa era a navata unica posta perpendicolarmente a quella attuale. Nel 1656 è documentato un intervento di restauro, necessario per fare fronte ai danni del terremoto del 1638 ed è probabile che riguardasse la primitiva fondazione; l’anno successivo inizia la costruzione della cappella dell’Immacolata nel luogo ove sorgeva l’altare maggiore della chiesa. Allora il primitivo coro non era stato ancora separato dal resto della chiesa con il tramezzo in muratura che venne innalzato nei successivi lavori del 1719.

La nuova cappella, costruita al posto del vecchio altare maggiore, è sicuramente inserita in un progetto più ampio che prevede, quindi, già una radicale trasformazione della struttura; si spiega in tal senso quanto riportato in un inventario del 1691 nel quale si dice che mancano tre cappelle per completare la nuova chiesa che viene così rivestita di forme barocche. Nel 1719 ebbero inizio i lavori di completamento alla cappella dell’Immacolata che assunse l’aspetto che oggi ha. In seguito al terremoto del 1854 venne rifatta la facciata ed alcuni lavori all’interno. Nel 1866 il convento venne soppresso e i Francescani vi ritornarono solo nel 1912. L’interno è a croce latina, a tre navate; la navata centrale è dominata dall’imponente altare maggiore in legno costruito nel ‘700, che è sovrastato da una tela di Daniele Russo del 1618 raffigurante il Perdono di Assisi; lo stesso Russo è autore di un crocifisso posto nella cimasa. Per dare un’occhiata agli altri dipinti, si parte dalla navata sinistra: sul primo altare è posto un crocifisso ligneo del ‘700; su quello successivo, dedicato alla Madonna della Febbre, la statua della Madonna col Bambino, opera in marmo del ‘500; poggia su uno scannello con bassorilievo frontale ove è scolpita la Presentazione al tempio e, ai lati, due agnelli. Il terzo e quarto altare, dedicati rispettivamente all’Addolorata e al Sacro Cuore di Gesù, sono in marmi policromi costruiti da F. Salvatore da Taverna nel 1778. Su quest’ultimo, si trova una statua del Sacro Cuore di Gesù e, in basso, una lapide che ne ricorda l’appartenenza alle famiglie Guido e Urso con la data: 1647. Più avanti, quadro dei Sette Martiri di Ceuta eseguito dal pittore rendese G. Greco nel 1928. In fondo alla navata è visibile un arco quattrocentesco in pietra rosata con fregi e cornice. Fino a qualche anno addietro, su questo altare era posta una tela fiamminga raffigurante San Francesco di Paola ora in sagrestia; apparteneva alla famiglia Tarsia, che vi aveva sepoltura. In una nicchia era posta l’Immacolata, scultura lignea del ‘700.

La cappella dell’Immacolata, rifatta nel 1657 da Giovan Domenico Mangerio, si presenta con un altare marmoreo costruito da F. Salvatore da Taverna nel 1777; nel paliotto, l’Immacolata; al di sopra, Immacolata ed Eterno Padre, tele di D. Russo. Sulle pareti laterali: San Pasquale Baylon con l’ostensorio opera di G. Cenatiempo del 1721 e Incredulità della presenza eucaristica con San Bonaventura. Al di sopra, cupola barocca edificata nel 1657 da Domenico Mangerio da Rogliano, ritoccata ed abbellita nel 1912. Dai due ingressi ai lati dell’altare si passa ad un ambiente del XIII secolo (vecchia sagrestia) con, ben visibili, colonnine, capitelli e arcate a crociera quattrocenteschi. Vi sono custoditi: un coro ligneo del 1505 a due ordini di posti, con stalli e poggioli divisori lavorati ad intaglio ed ornati con colonnine tortili. Sul cornicione di legno sono poste alcune statue in legno (l’Arcangelo Michele, San Giovanni da Capistrano, San Diego, San Pasquale di Baylon, e una piccola di San Francesco d’Assisi del ‘600). In alto, crocifisso ligneo del ‘300 e, in un sarcofago in legno del 1619, il corpo del beato Giovanni da Castrovillari; sull’urna, in legno intagliato del 1619, è scolpito in altorilievo il volto del beato. Accanto, nella sagrestia, soffitto ligneo dipinto, armadio in legno con episodi della Passione e figure di santi e di frati francescani (Cristo legato con la corona di spine in testa, Cristo in Croce, Flagellazione, le Anime del Purgatorio, S. Antonio da Padova, S. Bonaventura, S. Bernardino, S. Ludovico, S. Giovanni da Capistrano, S. Pietro d’Alcantara, S. Diego di Alcala, San Daniele Magister Calabriae, B. Pietro Regalato, B. Francesco Solano, B. Nicola M., S. Accursio M., B. Jacobus de Marchia, B. Salvator ab Orta, B. Antonius de Stronconio). Sul cornicione, due statue appena restaurate raffiguranti San Francesco d’Assisi e San Pietro d’Alcantara. Nell’arco di pietra d’intaglio, con lesene e decorazioni varie, è collocato un dipinto con San Francesco di Paola di scuola fiamminga; sulle pareti erano posti affreschi degli inizi del XV secolo raffiguranti: San Basilio, Sant’Antonio Abate, S. Caterina d’Alessandria non più esistenti in loco. Ad un angolo, armadio in noce intagliato, con cimasa di coronamento, con stemma sorretto da due puttini al centro. In alto, piccolo crocifisso ligneo quattrocentesco.

La cappella di Santa Caterina d’Alessandria, splendidamente adornata e decorata con intagli lignei dorati, costruita dalla famiglia Migliarese, venne ceduta nel 1530 all’arciconfraternita di Santa Caterina d’Alessandria; originariamente era un corpo a sé stante e solo nel 1656 venne aggregata alla chiesa. E’ poco consueto il culto di questa santa da queste parti. La sua storia riporta al IV secolo e Caterina, bella ragazza di sangue reale, di Alessandria d’Egitto, città nota per una scuola di filosofia atea, si trova a discorrere con cinquanta filosofi che vogliono convincerla che è impossibile ed inverosimile che Dio si sia fatto uomo e che morì sulla croce. Avviene il contrario perché sono costoro ad essere folgorati da Caterina e che si convertono al Cristianesimo. La cosa non piace all’imperatore romano Massimino Daia che li aveva convocati per ben altri risultati. In conclusione i filosofi vengono uccisi e Caterina, che aveva anche rifiutato le nozze dell’imperatore, conosce il martirio con una ruota irta di grossi chiodi. Ma gli elementi in ferro si piegano come fuscelli a contatto col suo corpo. Viene fatta allora decapitare ma, al posto del sangue sgorga latte. Ecco perché diviene protettrice delle lattanti. Il suo corpo senza vita fu portato da due angeli sul Monte Sinai dove Giustiniano le fece erigere un importante monastero. Ma veniamo alla visita. Sul pavimento, lapide del 1630; nel soffitto sopra l'altare, Gloria di Santa Caterina di Guglielmo Borremans; sulla parete di fondo, il Martirio di Santa Caterina, opera datata 1600 posta in una cornice lignea settecentesca di artigianato roglianese. Ai lati le sculture lignee di Sant’Apollonia e Santa Lucia; alle pareti laterali, poste in apposite nicchie, le statue di Santa Caterina d’Alessandria con la palma del martirio e della Madonna della Salette. Alle pareti della navata sono poste sei pregevoli tele opera di Guglielmo Borremans del 1705 ispirate ad episodi della vita della santa (Sposalizio mistico di S. Caterina, Disputa della Santa con i Filosofi di Alessandria d’Egitto, S. Caterina in carcere visitata dall’imperatrice, Corpo della Santa trasportato sul monte Sinai, La ruota del martirio si spezza). Il pulpito ed il coro in legno scolpito e dorato sono del ‘700; sulla cantoria è custodito un organo dipinto; sul soffitto, una tela su cui è effigiata Santa Chiara, di ignoto del ‘700, proveniente dall’omonima chiesa.

Uscendo dalla cappella e continuando verso l’ingresso, troviamo l’altare dedicato a San Francesco d’Assisi con la statua del santo e Cristo in Croce. Più avanti, piccola cappella con statua di Sant’Antonio da Padova; di fronte, sul pavimento, lapide marmorea con stemma gentilizio di Cesare di Parisio; segue l’altare di Santa Rita con un dipinto ad olio che ritrae la santa, opera di E. Salfi del 1921; in ultimo, accanto all’ingresso, l’altare di Santa Margherita da Cortona ritratta su un olio su tela dipinto dal napoletano Staita nel 1941.

Nel cimitero sottostante la chiesa è conservato un affresco del Trecento raffigurante l’Annunciazione. Accanto alla chiesa nei locali dell’ex convento, ha sede il Gabinetto di Restauro della locale Soprintendenza ed il vecchio chiostro dei Francescani al quale si accedeva sia dalla sagrestia che da una porta a sinistra dell’attuale altare maggiore. Continue manifestazioni mostrano le opere restaurate più significative appartenenti per lo più all’arte sacra minore calabrese, ma con pezzi di indubbio valore culturale. Sempre crescenti il numero di opere acquistate dal Ministero ai Beni Culturali in attesa di essere collocate nella nascente pinacoteca di Palazzo Arnone. Tra queste, notevoli opere di Mattia Preti, di Luca Giordano e poi tante altre di artisti minori calabresi, ma non per questo prive di fascino e di significato. Previ opportuni accordi col responsabile del centro, è possibile, specie per i gruppi, effettuare anche una visita guidata per conoscere le tecniche del restauro. Il chiostro, al quale si è accennato precedentemente, è costituito da 5 archi a sesto acuto per ognuno dei 4 lati. Secondo la Di Dario, la data incisa su una parete del chiostro è riferita alla chiesa antica che doveva essere con facciata a salienti simile a quella del Duomo. Il chiostro, invece, sicuramente di epoca successiva, è probabile opera degli Osservanti, insediatisi nella struttura nel 1436, mostrando più di una analogia col portico della chiesa di San Bernardino in Amantea. Tre arcate sono chiuse a causa della costruzione della massiccia torre campanaria edificata nel 1594. Sulle pareti dei corridoi, coperti con volte a vela, qua e là, resti di affreschi; sotto le arcate, numerosi frammenti architettonici di marmo provenienti dalla vecchia struttura.

Accanto alla chiesa, sono visibili resti di mura romane in "opus reticulatum" e di un’aula, probabilmente un’abside dell’antica struttura benedettina. Di quella chiesa distrutta dal terremoto del 1184 e non più riedificata, restano belle finestre ogivali e qualche muro. Girando subito a sinistra della chiesa, per una stradina in discesa, accanto a quella che, con non molta attendibilità, viene indicata come casa natale di Bernardino Telesio, si giunge alla Ficuzza, una zona caratterizzata da quest’albero che nasce da un muro e che si rigenera da molti anni. Da notare come questa strada, oggi Via Abate Salfi, era nota un tempo come Via dei Pettini, perché vi esponevano le loro mercanzie i venditori di pettini e di osso e degli attrezzi per pettinare la lana (36).

Ancora più in basso, la strada si biforca: a sinistra si è nel rione degradato di Via Casini, a destra, un sopportico; al di sopra, sono ancora superstiti le belle linee di casa Mari, distrutta dai bombardamenti dell’ultima guerra e non più ristrutturata. Da qui si scorge la Cattedrale. Ritornando sulla strada per la Giostra Vecchia, dopo gli Archi di Sambiase, stavolta si prosegue a sinistra per tornare su Piazza Duomo passando innanzi al palazzo Giannuzzi Savelli in Via del Seggio. Ha un portone sormontato da uno stemma gentilizio. Il cortile è abbellito da una fontana sovrastata da un arco e da una scala con ringhiera in ferro battuto del ‘700. La sopraelevazione di ben due piani, effettuata nel corso dell’800, ha alterato l’aspetto originario dell’edificio costruito nel XV secolo.

Da Piazza Duomo si nota la cordonatura verticale che, ad un certo punto, forma una nicchia votiva con un riquadro «sotteso da capitelli agli estremi e che termina con altrettanto elegante complesso motivo "fiammato"».

Tratto da "L.Bilotto" - Itinerari culturali della provincia di Cosenza

 

(1) BLOISE A., I Cappuccini a Cosenza e la chiesa del Crocifisso. Cenni storici con una appendice di preghiera. Cosenza, SAITA 1936; GIOCONDO p. L., I Cappuccini e i loro 37 conventi in Provincia di Cosenza, Fasano, Cosenza 1986, pp. 138-147; FRANGIPANE A, Cosenza, (le commissioni provinciali dei monumenti), in «Brutium» 1927-1928, n. 7-8. IDEM, Guglielmo Borremans pittore fiammingo in Calabria. La chiesa dei Riformati di Cosenza: un ciclo di pitture. L’autoritratto. In «Brutium» 1924, n. 3, IDEM, Monumenti calabresi danneggiati. In «Brutium» 1945, n. 3 - 4 - 5; IDEM , La scultura lignea del seicento in Calabria. In «Brutium» 1934, n. 3-5; I BUSTI dei Firrao nella chiesa di S. Maria di Costantinopoli a Cosenza, in «Napoli Nobilissima», fasc. I-II, 1920-1921; LE PERA R. a. , I Cappuccini e i loro 85 conventi, Chiaravalle C.le, Frama Su, 1982, P. 390.

(2) CECCARELLI A, La chiesa del Carmine restaurata a Cosenza, in «Magna Grecia» 1974. n. 11-12, pp. 15-18.

(3) CAMPISANI U., La Chiesa di San Nicola di Bari, in «Calabria Letteraria» a. XXIX (1981) n. 4 - 5 - 6. MINICUCCI C., Cosenza Sacra, Cosenza, Chiappetta, 1933.

(4) DI DARIO M.P., Itinerario Aragonese, in «Itinerari per la Calabria», Roma, ed. L’Espresso, 1983, pp. 218, 238, 260, 302; DE BIASE V., Cosenza domenicana, Cosenza, Poligrafica Orfanotrofio masc., s.d.; DIONESALVI R., Per la chiesa di S. Domenico e per i problemi artistici di Cosenza, in «Brutium» a. III 81924), n. 13; DIONESALVI R., La Chiesa di San Domenico e l’Arciconfraternita del SS. Rosario di Cosenza, Brevi cenni storici raccolti per i devoti, Napoli, La Nuovissima, 1932; DONATO D.G., Chiese di Cosenza, l’età barocca, Cosenza, Effesette, 1982, p. 29; ESPOSITO L.G., La Biblioteca di San Domenico di Cosenza, in «Archivium Fratrum Praedicatorum» n. 47 81977), pp. 439-473; ESPOSITO L.G., San Domenico di Cosenza 1447-1863. Via civile e religiosa del meridione, Pistoia, Memorie domenicane, 1974; FRANGIPANE A., Per la chiesa di San Domenico e per i problemi artistici di Cosenza, in «Brutium» n. 12,1924; FRANGIPANE A., Girolamo Imparato e le sue pitture in Calabria, in «Brutium», n. 2-3, 1925; FRANGIPANE A., La scultura in stucco nelle chiese e negli oratori della Calabria, in «Brutium» 1940, n. 4; GIOIA M., Il Barocco in Calabria, in «Gazzetta del sud», a. XXXII 81983), 13 novembre; MARTELLI G., Chiese monastiche calabresi del sec. XV, in «Palladio» IV (1956), nota 8 pp. 51-52; MARTELLI G., Chiese monumentali calabresi del sec. XV. La chiesa di San Domenico a Cosenza, in «Palladio» n. 1-2, 1956; MORMONE R., La chiesa di San Domenico a Cosenza: problemi di critica storica e di restauro, in «Rivista storica calabrese» a. IV, 1983, n. 3-4; MINICUCCI C., Cosenza Sacra, Cosenza, Chiappetta, 1933, pag. 128.

(5) BORRETTI M., Il forestiero a Cosenza, op. cit.; STANCATI E., Cosenza Toponomastica e monumenti, op. cit., pag. 66. (6)STANCATI E., op. cit. pag. 51.

(7) Sull’argomento vedi: PONS T.G., Valdesi condannati alle galere nei secoli XVI e XVII, Torre Pelice, Tip. Subalpina, 1951; PONS T.G., La crociata contro i Valdesi di Calabria nel 1561, in «Archivio Storico di Calabria e Lucania», a. IX, pp. 121-129; SPOSATO P., La restituzione dei beni confiscati ai Valdesi di Calabria, in «Brutium», x. X (1956), 29/30, pp. 90-106.

(8) BORRETTI M., Le strade di Cosenza. Saggio di toponomastica storica. Cosenza, Tip. Chiappetta, 1951.

(9) BORRETTI M., La chiesa e la Commenda dei Gerosolomitani a Cosenza, in «Rivista Araldica» a. XXXIII, 1935; MINICUCCI C., Cosenza Sacra, Chiappetta, 1933,

(10) PAOLINI F., Cosenza sul finire del XVI secolo, in «La Città di Telesio», Vibo V., Mapograf, 1990, tav. IX-XVII

(11) BORRETTI M., Il forestiero a Cosenza, op. cit.; CAMPISANI U., Condizioni precarie dei dipinti di Rocco Ferrari nel Vecchio Palazzo dei Bruzi in Cosenza, in «Brutium» n. 2, 1980; FIDAPA, Cosenza ieri ed oggi.; STANCATI E., op. cit., pag. 114; CADE a pezzi il Vecchio Municipio da anni senza alcuna manutenzione, in «Gazzetta del Sud», a. XXXIV, 24 gennaio 1985; L’EX MUNICIPIO DI CORSO TELESIO ospiterà gli uffici del rettorato ? in «Gazzetta del sud>> a. XXXIII, 24 dicembre 1984.

(12) AA.VV. LA CITTA’ DI TELESIO,

(13) BILOTTO L., Il Duomo di Cosenza, Cosenza, Effesette, 1989, con vasta bibliografia.

(14) IDEM con vasta bibliografia sull’icona.

(15) NAPOLETANI M., Duomo, Un mistero da svelare sotto la Cappella dei Nobili ? in Gazzetta del Sud a. XXXV, 5 settembre 1986; NAPOLETANI M., Bifora medioevale scoperta nella Cappella dei Nobili, in «Gazzetta del sud», a. XXXVI, 3 luglio 1987.

(16) BILOTTO L., Op. Cit., con vasta bibliografia sul monumento.

(17) IDEM, con vasta bibliografia sul sarcofago di Meleagro.

(18) BORRETTI M., Il museo diocesano di Cosenza, Cosenza, tipi De Rosa, 1938, estratto da «Parola di Vita».

(19) BILOTTO L., op. cit., con vasta bibliografia sulla stauroteca.

(20) DI DARIO M.P., I secoli del pianto, in «Itinerari per la Calabria>>, op. cit., pag. 278.

(21) BORRETTI M. I Gesuiti a Cosenza, in «Brutium» a. XIV, 1935 n. 4 - CECCARELLI A., Cosenza sul finire del XVI secolo, Chiaravalle, Frama Sud, 1978; CECCARELLI A., Giuseppe Valeriano <<Padre Gesuita>> architetto progettista della chiesa e collegio di S. Ignazio a Cosenza, in «Bollettino d’Arte» n. 2, 1979, pp. 29-60; CECCARELLI A., Un convento del XVII secolo a Cosenza, in «Calabria Sconosciuta» a. I, n. 1-2; MINICUCCI C., Cosenza Sacra, op. cit. pag. 168.; RUSSO. P.F., Storia dell’archidiocesi di Cosenza, Napoli, Rinascita artistica editrice, pp. 159-161.

(22) Sui primi lavori di adattamento da chiesa a teatro, è opportuno riportare uno scritto poco conosciuto di Vincenzo Greco da Cerisano, che da qualche parte appare come muratore. In una sua opera scritta, racconta la sua esperienza quale costruttore del teatro di Cosenza, ossia nella fase di trasformazione da chiesa a teatro. Era il 1819 ed il comune ne aveva deciso la fondazione nella chiesa degli ex gesuiti, in stato di abbandono ormai da anni ed adibita, durante il «decennio francese», a carcere per i briganti. Siccome era corsa voce che l’arcivescovo era intervenuto presso il re per impedire che si abbattesse il convento, le autorità municipali accellerarono i tempi e, in seguito ad una gara d’appalto, consegnarono i lavori a Vincenzo Greco da Cerisano. «Per assecondare le ardenti premure del pubblico formammo un progetto, sicché in breve tempo doveasi abbattere il tempio...Manifestato il progetto all’ingegnere direttore del savio ed onorato corpo di ponti e strade, egli ci prese per pazzi. Né tanto si contentò, convocò all’oggetto la deputazione e fu veramente un miracolo come non fummo tolti dall’appalto». La difficoltà maggiore consisteva nel demolire l’ampia volta della chiesa e di lasciare in piedi solo i pilastri laterali. Come narrava lo stesso Greco, il procedimento da lui proposto era stato giudicato impossibile dai dotti ingegneri del Corpo Ponti e Strade. Egli comunque riuscì nel suo intento dimostrando la sua bravura ed evidenziando nello stesso tempo l’inettitudine dei suoi colleghi che, colpiti dalla sua testardaggine, gli avevano detto: «tenete le porte chiuse e fate quello che volete». Vincenzo Greco completò l’opera con l’aiuto del bravo mastro Vincenzo Mazzuca di Cerisano che in seguito divenne cieco. Da: GRECO V., Nuovo organico artistico pel corpo ponti e strade per l’architetto V. Greco da Cerisano, Napoli, Tip. F.lli Fernandes, 1884. p. 5.

(23) CENTRO STORICO DI COSENZA: un esempio eclatante di degrado è dato dall’abbandono dell’antico Palazzo Gervasi, in «Corriere di Calabria» 1988, marzo-aprile; PALAZZO GERVASI al Cafarone rischia dopo cinque secoli di andare in rovina, in «Gazzetta del sud» a. XXXVII (1988), 25 marzo.

(24) BILOTTO L., Antonio Zupi, il fondatore della Cassa di Risparmio di Calabria e Lucania, in «Calabria Nobilissima», anno XXXIX (1990), numero edito in occasione del ventennale della morte del fondatore Mario Borretti.

(25) VALENTE G., Il Palazzo della Provincia, Fasano, 1988. MINICUCCI C., op. cit., pag. 78.

(26) BORRETTI M., Ricordi d’arte e di storia per il Teatro Rendano di Cosenza, in «Brutium» a. XLV, 1966, n. 4, pp. 6-8; FURFARO. A., Storia del Teatro Rendano, Cosenza, Ed. Periferia, 1989.

(27) BARILLARI B., L’Accademia Cosentina nel ‘500, in «Cronaca di Calabria» 1943, febbraio n. 9. CALABRIA, Storia, arte e costumi. Presentazione di M. La cava, Roma, Editalia, 1975, pp. 153-154.

(28) BENI CULTURALI IN CALABRIA. Archivi, Biblioteche, archeologia, Musei. Chiaravalle C.le, ed Effeemme, 1978; GIOIA M., Il Barocco in Calabria, in «Gazzetta del sud» a. XXXII, 13 novembre 1983 (Incunaboli della biblioteca).

(29) CAVALCANTI O., Il punto su Torre Mordillo e la sua cultura documentaria nel Museo di Cosenza, Cosenza, Di Giuseppe. ZUMBINI V., Guida Museo Civico di Cosenza, Cosenza, Due Emme, 1988.

(30) FAZIO M. R., Denominazione popolare di alcune strade, in «Guida di Cosenza», Milano, ed. Weka, 1991, pag. 39.

(31) PAOLINI F,. op. cit. DI DARIO M.P., La Calabria del XVI sec., in «Itinerari» ecc. op. cit., pag. 236.

(32) MINICUCCI C. , op. cit., pag. 67 CECCARELLI A. Architettura in Calabria, in «Magna Grecia» a. XII, 1978, n. 9, pp. 7-9, n. 10, pp. 12-13. SAVAGLIO A., Santa Maria delle Vergini, un convento di clausura femminile a Cosenza 1516-1809. Manoscritto in attesa di pubblicazione, in possesso dell’autore a Castrolibero.

(33) DI DARIO M.P., Itinerario d’arte dai Bizantini agli Svevi, in «Itinerari ecc.», op. cit., pag. 147.

(34) TERZI F., Architettura e vita civile a Cosenza: Palazzo Caselli, Cosenza, Satem, 1986.

(35) CAPPELLI B., Incontri con l’architettura gotica in Calabria, in «Almanacco Calabrese», 1969, pp. 17-31. - CECCARELLI A., Architettura in Calabria, in «Magna Grecia» a. XII, n. 9 e n. 10; CECCARELLI A., Nota sul complesso monumentale di San Francesco d’Assisi, in «Catalogo della mostra Arte in Calabria. Ritrovamenti, recuperi, restauri», Di Mauro, Cava dei Tirreni, 1975; COCO P., Saggio di storia francescana di Calabria dalle origini al sec. XVII, Taranto, Cressati, 1931, pp. XXXV-251; DI DARIO M.P., Calabria Angioina, in «Itinerari per la Calabria», Roma, ed. L’Espresso, 1983; DI DARIO M.P., Itinerario aragonese, in «Itinerari per la Calabria», op. cit. pag. 454 (indice); DONATO D. G., Chiese di Cosenza ecc., op. cit., pag. 21; FRANGIPANE A., La fede e l’arte d’Assisi in Calabria, in «Brutium» 1957, n. 5-6; IANNACE R., L’intaglio in legno nel cosentino dal XVI al XVIII secolo, in «I beni culturali e le chiese di Calabria» 1981, pp. 315-319; MOLLO F. S., Il recupero della figuratività dell’immagine nei monumenti calabresi: alcuni esempi di Cosenza. In «I beni culturali di Calabria», 1982, n. 11-14; PAOLINO F., Note sulla chiesa e il convento di S. Francesco d'Assisi a Cosenza, in «Quaderni del dipartimento patrimonio architettonico e urbanistico» I, (1991), 2, Soveria M., Rubettino; PIETRO NEGRONI e la cultura figurativa nel ‘500 in Calabria, Roma, Marra ed., 1990; SCUDERI S., Interventi di restauri sul patrimonio sacro in Calabria, in «I beni culturali e le chiese di Calabria» 1981, pp. 449-467.

(36) FAZIO M. R., Denominazione popolare di alcune strade, in Guida di Cosenza, Milano, Weka, 1991, pag. 39.

 

 
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