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MENDICINO

Molto controverse sono le origini di questo paese comunque antichissimo. Si vuole sede della mitica Pandosia, perché alcuni toponimi quali il torrente Caronte, riportano al qual fiume Acheronte posto vicino alla città scomparsa e divenuto famoso perché presso le sue sponde vi trovò la morte Alessandro il Molosso, re dell’Epiro e zio di Alessandro Magno. Anche il nome della contrada Pantusa e la tradizione orale spingono in tale senso. Rimane comunque il fatto che, secondo l’elenco tramandataci da Ecateo da Mileto e riportata dagli storici a lui successivi, l’antico nome del paese che è Menecine e Pandosia risultano contemporaneamente quali centri indigeni preellenici di origine enotra; emergerebbe chiaro quindi che una città non poti occupare il sito dell’altra.

Fu feudo dei Sersale alla fine del XIV secolo, poi, fino al 1442 fu sottoposta sotto la giurisdizione dell’arcivescovo di Cosenza; quindi passò agli Adorno e, infine, agli Alargon de Mendoza marchesi di Rende e della Valle Siciliana fino all’eversione della feudalità. Pur se la tradizione orale vuole la chiesetta di San Sebastiano sita di fronte alla parrocchiale, come l’edificio sacro più antico, la documentazione storica ci riporta invece al Santuario di Santa Maria Assunta sito nella parte alta del paese nell’omonima frazione e di antica fondazione. Nel 1202, alla morte di Gioacchino da Fiore, esisteva a Mendicino un monastero maschile sotto il titolo di Santa Maria dei Martiri, e una congregazione femminile che, tra l’altro, era collegata con le altre due di Cosenza e Sorrento.

Attualmente la chiesa ha un bel frontale goticheggiante con colore tipico della pietra di Mendicino. Sopra il portale spicca un mosaico policromo raffigurante il Cristo Pantocratore. Il portone contiene pannelli bronzei che rappresentano episodi della Passione e di S. Maria Assunta. L’interno è a croce greca, ad una sola navata col soffitto a botte. Nella parete absidale è posta una statua litica della Madonna di Schiavonea; ai lati due affreschi raffiguranti San Matteo e San Marco eseguiti da Settimio Tancredi nel 1927. Ad una parete laterale è accostata una statua di S. Maria Assunta.

Al centro del paese, è d’obbligo una visita alla chiesa parrocchiale sotto il titolo di San Nicola. Vi si ammirano: un dipinto della Madonna col Bambino e santi, un altro con la Madonna con Bambino, San Nicola e San Pasquale, una tela di A. Rinaldi del 1902; inoltre due opere: la Madonna con Santa Caterina e San Nicola del 1913 e l’Abbraccio del Crocifisso e San Francesco d’Assisi, entrambe di S. Calcagni. Vi sono ancora custodite alcune statue: una lignea del 1859 dello scultore A. La Corte; una statua da presepe della Madonna, n. 3 in cartapesta raffiguranti rispettivamente: San Nicola di Bari, Santa Rita da Cascia e San Giuseppe; una Madonna del Carmine col bambino e una dell’Addolorata. A sinistra è adagiato l’antico rione Castello le cui case si inerpicano fino alla sommità del colle dominato dalla torre dell’orologio. Vi si gode una veduta d’assieme eccezionale.

In pieno centro storico si erge la bella mole del palazzo Campagna appartenuto alla famiglia Del Gaudio. Nella parte bassa del paese detta mpede, colpisce la Fontana dei dodici canali che sgorgano da una parete rocciosa con blocchi di tufo. Accanto, la chiesa dedicata ai Santi Pietro e Bartolomeo che fino a pochi anni or sono era la seconda parrocchia del paese. Questo edificio era appartenuto fino al 1809 ai padri predicatori, meglio noti come Domenicani. I documenti attestanti la fondazione del convento scomparvero in seguito al terremoto del 1638. In un quadro posto sull’altare maggiore si leggeva la data del 1490, che, molto presumibilmente, era la data di fondazione. I Domenicani erano stati introdotti a Mendicino da padre Epifanio Cozza dello stesso paese. Il convento fu soppresso con decreto del 7 agosto 1809 mentre contava 4 sacerdoti e 1 laico.

L’antico convento è diroccato e l’attuale edificio consta della sola chiesa. La facciata ha un interessante portale rinascimentale; l’interno è ad una sola navata con un cappellone laterale dove annualmente viene allestito un presepe. Tra le opere d’arte che vi si possono ammirare fanno spicco 5 affreschi posti nel vano absidale, opera di Lucillo Grassi del 1951 particolarmente suggestivi ed originali per le tinte color pastello; rappresentano episodi della vita di San Pietro. Nella cantoria è posto un dipinto di San Domenico in Soriano. Nella navata, a sinistra, crocifisso in cartapesta; statua raffigurante San Luigi Gonzaga; dipinto raffigurante l’Annunciazione di Raffaele Rinaldi da San Fili; Madonna del Rosario del Pascaletti di Fiumefreddo Bruzio eseguita nel 1752; statua del Sacro Cuore; altro dipinto del Rinaldi del 1903 raffigurante San Raffaele. Sull’altare maggiore, in marmo, statua di San Pietro; negli squarci, affreschi degli evangelisti. Sulla parete destra, dipinto raffigurante San Vincenzo Ferreri e San Tommaso d’Aquino eseguito dal Rinaldi nel 1895; statua raffigurante Santa Barbara; Natività della Madonna di R. Rinaldi; Santa Rosa da Lima, opera dello stesso Rinaldi del 1895; statua della Madonna. Attribuiti allo stesso pittore sanfilese, ma con qualche margine di dubbio, sono anche 8 dipinti raffiguranti la passione di Cristo e la vita della Madonna. Tra le altre statue vi sono custodite una Madonna del Rosario, un busto in cartapesta dell’Ecce Homo, una di S. Lucia e un Sant’Antonio da Padova. Alcune di queste opere sono in fase di restauro.

Dalla frazione Rizzuto, in poco tempo si giunge al bivio di Croce Coperta, e, girando verso sinistra, alle falde del Monte Cocuzzo. E suggestivo per il visitatore lasciarsi alle spalle l’ulivo e la vite per addentrarsi nei castagneti, quindi le pinete per poi incontrare il faggio, incontrastato dominatore delle alte quote. Giunti alla cima di Cocuzzo, e vale la pena di arrivarci a piedi, si resta smarriti da un orizzonte sterminato che lo sguardo è capace di cogliere. Nelle giornate serene si vede bene lo Stromboli e l’Etna, la Sila ed il Pollino, sotto di noi da una parte il mare, dall’altra la Valle del Crati.

Vincenzo Padula in questo paese non faticava a trovarvi dei nomignoli, o, come lui stesso le definiva, ingiurie. Nel nostro caso, Mendicino appare come luogo di cursunari e cangia-madonne. Quest’ultimo epiteto, meritato perché, secondo il noto sacerdote, i suoi abitanti, "allettati da una spanciata di maccheroni, cangiarono la loro statua del Rosario con quella di Cosenza", evidenzia come gli stessi siano stati poco accorti nell’effettuare uno scambio che, nella sostanza, si risolveva a tutto vantaggio dei cosentini, anche se a proporlo era stato nientemeno che l’arcivescovo Narni-Mancinelli. In quanto all’altra diceria, il discorso è ben più consistente ed affonda le radici in una secolare tradizione oggi, purtroppo, scomparsa.

In una sua opera, Vincenzo Greco da Cerisano, verso la metà dell’800, facendo riferimento a miracolose cure che venivano praticate nella ridente cittadina di Mendicino, affermava che in tale paese "vi sono due o tre famiglie, o forse più, le quali di generazione in generazione, tramandano un impenetrabile segreto. Essi conoscono un’erba, la quale applicata ove abbia morso la vipera, richiama a novella vita lo infermo. Questi chi gli appella cialaurari, e chi cursunari. Per loro la famiglia dei rettili è cosa familiare. Quando va lo infermo semivivo, noi ne vediamo vari ogni anno portarsi colà quasi morti e senza mica speranza di vita. Essi benignamente e generosamente l’accolgono, adducendo tanto essere loro debito per volere di San Paolo, e per volere pure, così dicono, di San Paolo percorrono le campagne ed i paesi, e portano onuste al loro paese le vetture di ogni ricchezza. Oprando il mistero, segnando varie croci sulla fronte dello infermo, e nella parte egra, e dando a vedere che vi pongono scialiva, ma vi applicano una erba, che masticano a tal’oggetto, e lo infermo è indubitatamente salvo. E cosa che non si debba prendere a scherzo, e segnatamente per lo morso delle vipere delle montagne, ch’essi dicono vipera carbonillo. Se per poco lo infermo abbia bevuto acqua, sentendo gran sete, la cura è più lunga, e delle volte infruttuosa: perciò eglino gli somministrano sempre vino, non mai acqua".

Il nomignolo di cursunari, nascondeva, quindi, qualcosa di più nobile e profondo, ricercato da alcune famiglie che utilizzavano e studiavano la vastissima gamma di erbe medicinali di cui abbonda il monte Cocuzzo delle quali già il Marafioti nel 700 doveva decantarne le qualità: "...berruari minerali erbisque medicinalibus in Cocuzio monte famosum". Il mestiere di ceraularo si trasmette da primogenito a primogenito.

Sono ancora presenti nella memoria della gente alcuni personaggi che giravano con cassette di legno all’interno delle quali erano conservati dei serpenti da adoperare per calmare dolori e malattie. Famosa la rivalità con la vicina Cerisano per cui i mendicinesi spesso invocavano: "Madonna du Rusariu e Mennicinu, manna na pestilenza a Cerisano, mannala forte cumu na quartana, ca un ci restassi na persuna sana" (Madonna del Rosario di Mendicino, manda una pestilenza a Cerisano, mandala forte come una febbre quartana, in modo che non ci rimanga una sola persona sana). Non si digeriva neanche il fatto che, in dialetto gli abitanti dei due centri venissero chiamati, cerisanisi e mennicinari. Questi ultimi, ritenendo quasi dispregiativa loro denominazione, cercarono in tutti i modi di mutare anche quella dei convicini in cerisanari.

Nella chiesa di San Pietro cera un quadro di San Domenico in Soriano ritenuto miracoloso. Forse si tratta di quello oggi posto sulla cantoria. Probabilmente è lo stesso che nel Seicento espresse il suo disappunto nei confronti di un monaco peccatore del quale si stavano celebrando le esequie, e che cominciò a vibrare e a muoversi violentemente. Il fenomeno cessò solo dopo che la salma dell’indegno religioso fu portata fuori dalla chiesa. Pare che lo stesso prodigio sia avvenuto successivamente quando si celebravano i funerali di persone indegne.

Fino a non molto tempo addietro per ricordare il tremendo terremoto del 4 febbraio 1789, nell’anniversario e nell’ora della sciagura, venivano suonate le campane a stormo e ogni famiglia illuminava i propri davanzali con candele accese. Costume tradizionale: "Rizzola ad elmo. Veste nera con pedana rossa".

Tratto da "L.Bilotto" - Itinerari culturali della provincia di Cosenza

 

AA.VV., Mendicino, Itinerari culturali, a cura del Circolo "L’Incontro", Mendicino, Santelli, 1993;

BILOTTO L., Eros in filanda nella Mendicino dell800, Cosenza, Santelli, 1995;

IDEM, Mendicino nel 700, ms;

GRECO Raffaele, Mendicino, storia, leggenda, folklore, Roma, 1959;

PUTIGNANI A., Il Santuario di Santa Maria di Mendicino, in "Cronaca di Calabria", 17. VIII. 1958.

 
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