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MARANO PRINCIPATO

L’origine di questo paese, secondo la tradizione, è da ricercare all’indomani del terribile terremoto del 1638 che distrusse Castelfranco (l’odierna Castrolibero) e provocò ingenti danni a Rende. Da questi due centri si verificò un’emigrazione massiccia verso le terre un giorno note come Marano Troiano. La contesa del nuovo paese provocò veri e propri conflitti tra gli Alargon de Mendoza marchesi di Rende e i Sersale principi di Castelfranco e duchi di Cerisano. Le cronache del tempo parlano di una elevata conflittualità tanto da causare anche dei duelli tra i rampolli dei due casati. Dopo il contestatissimo intervento di un tabulario napoletano, verso la fine del 600, si pose fine ad ogni controversia assegnando Marano Marchesato sotto la giurisdizione del marchese di Rende, e Marano Principato sotto quella del principe di Castelfranco.

La Chiesa dell’Annunziata rappresenta il fulcro del paese. In questo tempio è custodita la devozione dei suoi abitanti, e la sua storia testimonia quanto la gente del posto sia legata a questa chiesa che, nel corso dell’800, fu ampliata grazie ad una azione corale di tutta Marano. Si presenta con la sua bella facciata a tre portali con rispettivi rosoni in tufo locale in cui è iscritta una croce. All’interno si ammira quasi una personale pinacoteca del pittore Raffaele Rinaldi da San Fili: l’Ubbidienza di San Francesco di Paola del 1899, l’Immacolata del 1896, la Deposizione del 1896, l’Annunciazione del 1890, il Sacro Cuore di Gesù e Santa Margherita Maria Alacocque del 1897, il Transito di San Giuseppe, la Madonna del Rosario, Santa Lucia del 1903, San Luigi Gonzaga del 1902. Vi si conservano ancora: una statua di San Francesco di Paola, una statua lignea raffigurante Sant’Ippolito, un crocifisso in legno e cartapesta, una statua in legno e cartapesta della Madonna Rosario con San Domenico e Santa Caterina del 1910 e una statua lignea dell’Annunciazione. Il fonte battesimale è in tufo e legno, mentre l’altare maggiore è in marmi policromi intarsiati ed in parte scolpito; c’è ancora un altare ligneo eseguito dal Perugini nel 1897 e un organo del 1903 del Pacifico.

Nella Chiesa di Sant’Antonio è custodita una statua lignea del 1899, un dipinto di Sant’Antonio e un affresco raffigurante il Sacrificio di Abramo. In passato venivano chiamati tamarri. I Tomari, ci dice il Padula, erano i sacerdoti di Giove Dodoneo, cui Omero dice che vivevano coi piedi e mani lorde. In una zona nota come Inferri, v'era una chiesetta dedicata a Santa Maria di Costantinopoli. Nel corso del 700 due "impudichi osarono lì dentro commettere l’iniquità: nel cui atto l’edificio crolla...". Altro epiteto famoso è: "Vucchi larghi e Cerisanu e latracchiuni de Maranu" (Bocche larghe di Cerisano e ladruncoli di Marano).

Costume tradizionale, come in Marano Marchesato.

Un’usanza diffusa in tutto il cosentino, ma che qui durò più a lungo, è legata alla caduta del primo dente di un bambino. Lo si raccoglieva in un buco o in un vasetto di terracotta recitando le seguenti parole: "muru viecchiu e muru nuovu, tè viecchiu e dammi u nuovu, forte cumu nu chiuovu, jancu cumu na corchia duovu". Il solito d’Orsa ci ricorda che in Plinio si legge che le romane, alla caduta del primo dente di un bambino lo posavano in una maniglia che portavano al braccio per essere preservate da "certe loro sofferenze".

Da Marano può avere inizio anche un itinerario di tipo naturalistico che percorre la montagna del Silo fino a Cocuzzo e Potame. Nella zona detta Timpa i cuorvu vi è la grotta dei briganti, presso la quale, a detta dei maranesi, si verifica lo strano fenomeno dello spegnimento delle torce elettriche, dovuto, sembra, all’esistenza di una campo magnetico. Non sembra molto verosimile, ma vale la pena di provare.

Il nome di Marano Principato compare anche quando si parla del Caso Pandosia. Sorta tra il 770 e il 720 a.C., Pandosia era una antica città enotra; probabilmente la capitale di un comprensorio al quale appartenevano anche Arinta (Rende), Citerium (Cerisano), Menecina (Mendicino), Ixia (Carolei). La principale descrizione della città era data da Strabone che scriveva: "Un po' sopra Cosenza c’è Pandosia, fortezza ben munita, dove fu ucciso Alessandro re dei Molossi, ingannato dall’oracolo di Dodona, che gli ordinava di guardarsi dall’Acheronte e da Pandosia, perché luoghi con lo stesso nome si trovano nella Tresprozia, il baluardo a tre cime scorre vicino al fiume Acheronte. In altro per di più ingannò l’oracolo: In Pandosia perderai il popolo perché trivertice. Credette infatti che fosse indicata la rovina dei nemici non dei suoi". Alessandro il Molosso era stato chiamato in Italia dai Tarantini per ottenere rinforzi nella guerra contro Bruzi, Sanniti e Lucani. Spinto anche dal desiderio di sfuggire alla predizione dell’oracolo, era andato a finire in una città omonima dalla quale si era allontanato. Egli, secondo il Giustino, fu ucciso vicino alla città di Pandosia e al fiume Acheronte dei quali aveva ignorato i nomi fino al momento della morte. Livio narra che il corpo del re trafitto, fu trasportato dalla corrente fino alle poste dei nemici.

Ancora oggi gli studiosi si dividono circa l’ubicazione di questa mitica città tra la zona di Mendicino e quella di Marano Principato - Castrolibero. Entrambi i sostenitori adducono diversi argomenti, toponimi e documenti, mai però una prova certa ed inconfutabile suffragata da riscontri archeologici. Cosa ancor più interessante della quale gli stessi studiosi non sembrano darsi eccessivo pensiero, è il perché questa città scomparve e quando, considerato che nel 1276 esisteva ancora un Casale Pantosa che contava più abitanti di Cosenza e che, in un documento del 1412 viene definito Casale desertum.

Tratto da "L.Bilotto" - Itinerari culturali della provincia di Cosenza

 

AA.VV. Marano Principato, storia di una piccola comunità calabrese, Cosenza Effesette, 1988;

ANELLI A.-SAVAGLIO A, Storia di Castrolibero e Marano, Cosenza, Fasano, 1989;

BILOTTO L., Cerisano, Castrolibero ecc., op. cit.; IDEM, I Sersale, duchi di Cerisano ecc., op. cit.;

KOSTNER F. - SAVAGLIO A., Un calabrese alla corte pontificia, in "Calabria 2000", n.7/8, 1990

 
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