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LUZZI

Sede dell’antica Tebe Lucana, deve il suo nome, probabilmente, ad una famiglia normanna che vi ebbe giurisdizione feudale. Fu teatro di persecuzioni, nel 1606 e nel 1626, ai danni della comunità ebraica che vi aveva sede. Dopo la famiglia Luzzi, appartenne ai Viscardi, o Biscardi, poi a Tommaso d’Aquino. Successivamente fece parte dello stato di Bisignano e, dopo le confische dei beni operate ai danni dei Sanseverino, fu affidata alla famiglia Somma, quindi ai Spadafora e, dal 1614, alla famiglia Firrao che vi rimase fino alle leggi eversive dei napoleonidi (1806).

La chiesa di Santa Maria, definita arcipretale-parrocchia della Natività, viene eretta nel 1040 col nome di Santa Maria di Corato. Già nel 1302 è radicalmente trasformata e, nel 1374, in seguito all’interessamento dei feudatari locali, viene notevolmente ampliata sl da costituire, alla fine, una chiesa completamente diversa. Nel 1495 i Firrao, nuovi signori del paese, forse per effettuarvi dei lavori di ristrutturazione, ordinarono ulteriori interventi. Nel 1516, per munificenza della stessa famiglia, furono aggiunte le cappelle dedicate rispettivamente al SS. Sacramento e a San Giovanni Battista. Nel 1613 è documentato un ulteriore intervento allo scopo di ampliare ancora l’edificio.

Ma fu a causa dei vari terremoti (1638, 1693, 1731, 1783) che si rese necessario intervenire nuovamente per risanare la struttura. In ogni caso, nel 1815, si dovette ancora riparare qualcosa. Ma le sventure non conoscevano soste. Che dire, infatti, dei terribili danni apportati dagli altri movimenti tellurici del 1854, 1905, 1908 e 1913? Fu per questi motivi che chiesa appariva, in effetti, un continuo cantiere di lavoro. Oggi solo il campanile mantiene le sue linee medievali scomparse invece dalla facciata che è stata rivestita da una sovrastruttura barocca e divisa in tre scomparti con altrettanti portali. Già nel sec. XVII si ha notizia di una confraternita intitolata a Maria avvocata dei peccatori detta anche Madonna del Suffragio. Come spesso accade, una accesa rivalità con l’altra congregazione avente come riferimento la chiesa di Sant’Angelo, portò i contendenti innanzi alla Sacra Congregazione del Concilio per stabilire quale delle due chiese dovesse avere la supremazia. La disputa fu conclusa con una sentenza del 1729 che sanciva la superiorità della chiesa di Santa Maria. L’interno, trinavato barocco, termina con una profonda abside dominata da un sontuoso coro ligneo del sec. XIX. Prima di accedervi, si percorre una gradinata e una balaustra. Il presbiterio è coperto da una cupola sapientemente decorata. Sulla sinistra, si apre la cappella del Sacro Cuore con altare marmoreo policromo al di sopra del quale è posta una statua del titolare. Sulla destra, invece, si trova la statua della Vergine del SS. Rosario. Sulla cappella di destra, sede della confraternita del Suffragio, dipinto della Madonna omonima. Nello stesso posto, sulla parete sinistra, in una apposita nicchia, statua di Sant’Emidio il cui culto venne importato dalla famiglia Campise più di cento anni oro sono. In una nicchia posta di fronte al pergamo, sono custodite alcune reliquie. Appena entrati in chiesa, sulla sinistra, fonte battesimale litico, con la parte superiore in legno intagliato e scolpito con croci e motivi floreali alla maniera medievale, attribuito ad artieri toscani del 200. A sinistra, come già accennato, si apre la cappella del Sacramento, rifatta nel 1957 e decorata da Emilio Jusi da Rose. Più avanti, dipinti della Madonna della Neve e del Battista. Sulla navata destra, due dipinti: la Madonna del Rosario con San Domenico e Santa Caterina, di scuola napoletana del sec. XVIII, e i SS. Pietro e Paolo. Più avanti, altare marmoreo con crocifisso settecentesco che richiama per molti aspetti quello della Riforma di Bisignano. In sagrestia sono custoditi: un dipinto ad olio su tela col ritratto del cardinale Giuseppe Firrao, di pittore locale del 700; croce processionale in lamine d’argento con l’immagine del Cristo a rilievo, proveniente da bottega napoletana del 700; calice di argento fuso e cesellato del 600; leggio, e stipi del 700.

La chiesa di San Giuseppe venne eretta per munificenza di Luca Sanseverino nel 1476 accanto alla loro dimora luzzese, identificabile nel palazzo Vivacqua, attualmente sede del municipio. Nel 1743, Pietro Firrao commissionò la costruzione di una cappella nella quale pose le spoglie di Sant’Aurelia fatte appositamente traslare dalle catacombe di San Sebastiano a Roma per interessamento del cardinale Giuseppe Firrao, nipote del committente. Non si conosce il motivo di tanto interessamento né se fu preminente il culto verso questa santa decapitata sotto Diocleziano; una lapide ne ricorda l’avvenimento.

La chiesa si erge in forme seicentesche, con una ampia scala che si apre dai due lati. Sul portale, mosaico a ceramica con figura del santo titolare. L’interno è tutta una festa di barocco. Sulla sinistra, grande cappella con statua della Madonna Ausiliatrice; dalla destra invece si apre la già citata cappella di Sant’Aurelia che reca, sulla sinistra, un’acquasantiera marmorea sorretta da una mano, proveniente da bottega marmorara toscana del 700. In alto, dipinto del sec. XX su cui il pittore Felice Fiore da San Benedetto ha effigiato la santa titolare. Lo stesso artista è autore della tela posta sulla porta della sagrestia che raffigura la SS. Trinità. Sulla navata sinistra, altare in marmi policromi con statua di Gerardo Maiella; pala d’altare di ignoto del 700 su cui è effigiato San Raffaele; altro dipinto che ritrae San Gennaro con paramenti vescovili nella tradizionale iconografia con le ampolle di sangue, opera attribuita a Pietro Novelli (1603-1647). Sulla navata destra, altare in marmi policromi con statua lignea ottocentesca di San Giuseppe e pala d’altare raffigurante lo Sposalizio della Vergine del sec. XIX. Il pittore luzzese Giuseppe Cosenza ha ritratto San Francesco Saverio mentre insegna il catechismo ad un pagano, datando l’opera 1866.

La chiesa dell’Immacolata, si erge nel Rione Timpone, nella parte più alta del paese. Si vuole sia sorta sulle rovine di un tempietto pagano e dedicata, in un primo momento, al Salvatore. Nella metà del 600, la chiesa figura ad una sola navata e con altare dedicato all’Immacolata. Alla fine del sec. XVIII, si resero necessari dei rifacimenti e l’incarico fu affidato al pittore Raffaele del Corcio il quale, tra l’altro, restaurò la statua lignea della titolare che era stata scolpita nel 1718, dal monaco cappuccino Antonio Collice.

Dopo il terremoto del 1854, si decise l’ampliamento della struttura con delle cappelle laterali. Anche nei primi anni di questo secolo furono eseguiti lavori di restauro conclusi nel 1934. L’interno è trinavato. L’altare maggiore è in stucco colorato, opera di artieri meridionali del 700. Sopra il presbiterio, bella cupola decorata e dipinta da Emilio Jusi. Sulle tribune, due affreschi settecenteschi di Raffaele del Corcio: Presentazione di Gesù al tempio (lato sinistro), e Visitazione di Maria ad Elisabetta (lato destro). Sull’altare maggiore, in una nicchia, statua di Gesù Risorto. Nell’absidiola sinistra, bel crocifisso ligneo settecentesco scolpito a figura intera e dipinto al naturale; in quella di destra, sono poste le statue di Cristo morto e dell’Addolorata. Sulla navata destra, tele di scarso pregio su cui sono ritratti Santa Liberata e il Sacro Cuore; inoltre, un’Annunciazione di scuola solimenesca e una pregevole tela della scuola di Luca Giordano raffigurante la Madonna in Gloria, proveniente dall’abbazia della Sambucina.

La chiesa di Sant’Angelo, si ritiene sia stata costruita nell’800, qualcuno è più propenso a pensare che la sua erezione sia avvenuta nel 980. A quanto riporta il Santagata, era mononavata e di dimensioni contenute. Agli inizi del sec. XIV, vennero aggiunte due navate laterali e degli altari di jus patronato delle famiglie nobili locali le quali utilizzarono una parte della chiesa per seppellirvi i propri defunti, ovviamente distinguendosi dalla cripta comune destinata ai comuni cittadini. La sua partecipazione attiva alla vita del paese non era solo relativa alle funzioni a carattere religioso, anzi le due confraternite laicali che vi sorsero (SS. Trinità prima, e del Carmelo dopo) animarono non poco le vicende paesane con un notevolissimo contenzioso con le altre associazioni aventi come punto di riferimento la chiesa di S. Maria. Nel porticato murato dopo il terremoto del 1905, sin dal 1671, avvenivano le riunioni dell’università di Luzzi, come dire del municipio, per discutere degli affari e dei problemi del paese. Inutile ricordare che i funesti terremoti che flagellarono le nostre terre, provocarono anche in questa struttura seri danni che resero necessari continui restauri.

Al visitatore che vuole dare un’occhiata alla chiesa, in Via Cardinale Firrao, si presenterà un edificio al quale si accede da una gradinata con, sulla sinistra, una tozza torre campanaria a due scomparti e con finestre monofore e ingresso dall’esterno; in alto, campana del 1409. L’interno è trinavato e diviso da pilastri su cui si aprono delle arcate che sorreggono una struttura barocca. Sulla sinistra, dopo l’ingresso, interessante fonte battesimale litico. Il presbiterio è sovrastato da una bella cupola; sul cappellone di destra, tela della SS. Trinità alla quale è dedicato anche questo spazio; sulla sinistra, statua lignea di San Michele. La cappella di sinistra è intitolata alla Madonna di Costantinopoli e contiene una tela con la raffigurazione della stessa Vergine, opera di ignoto meridionale del 700. L’altare maggiore in legno è opera settecentesca delle arcinote maestranze provinciali che provvidero ad intagliarlo e a decorarlo con l’usuale abilità. Al centro, bel tabernacolo, tipico delle chiese francescane e proveniente, con ogni probabilità, dal locale convento dei Cappuccini; vi si notano le statuine degli Evangelisti e viene genericamente attribuito (Frangipane) ad intagliatori meridionali del 700, mentre non è azzardato far rilevare che appare un tipico prototipo di arte monastica presente in molte chiese della provincia. Sulla sinistra è posta una bella tela ispirata dall’arte del sommo Leonardo, raffigurante la Madonna delle Grazie; si tratta di una donazione in favore della chiesa fatta dai coniugi Sangermano-Salituri nel 1525. Nella cappella sita in fondo alla navata destra, statua della Madonna del Carmine.

Altre interessanti opere d’arte sparse qua e là sono: un piccolo stipo settecentesco; altro stipo più grande della stessa epoca con cimasa recante piccole statue dei SS. Nicola e Michele; confessionale della stessa epoca; base processionale con i simboli scolpiti di San Nicola (tre bimbi in un tino), San Michele (la bilancia), la Madonna del Carmine (fiamme). Ricca l’argenteria nella quale sono degni di nota: una croce processionale in lamine d’argento sbalzato col Cristo a tutto rilievo del 1781; un calice argenteo del 700; un ostensorio della stessa epoca proveniente dal convento dei Minimi.

La chiesa di Sant’Antonio fu fondata con l’annesso convento dei Cappuccini nel 1605 con i soldi di alcuni notabili del posto, ma, soprattutto, con le elemosine dei cittadini. La semplicità delle linee e la povertà dei materiali adoperati fanno pensare ad un edificio in linea con gli ideali francescani caratterizzati, appunto, dalla povertà . Il 7 agosto 1809, in obbedienza alle prescrizioni delle leggi napoleoniche, la struttura venne soppressa. Con la restaurazione, tra il 1818 e il 1819, il complesso venne affidato alle Piccole Operaie dei Sacri Cuori, un'istituzione nata nel comune di Acri. L’interno, decorato da Emilio Jusi, è mononavato con la zona absidale leggermente sopraelevata. Sulla destra, due cappelle: la prima di Sant’Antonio da Padova con statua del titolare; la seconda con statua della Madonna di Fatima. Tra le opere di maggior pregio, è in evidenza un ciborio in legno di noce con intarsi e decori vari madreperlacei alla maniera della tipica arte monastica settecentesca. Ad incorniciare un crocifisso posto al di sopra del ciborio, è una bella composizione scompartita da fastigio ligneo settecentesco con, nella parte alta, un dipinto di anonimo del 600 raffigurante l’Incoronazione della Madonna; ai lati San Bonaventura e Sant’Antonio da Padova. Addossati all’arco che delimita la zona absidale, in due belle nicchie lignee settecentesche, un Ecce Homo di scultore meridionale del 700 e una statua lignea settecentesca dell’Addolorata, restaurata nel 1846.

Sulla strada che dal paese si inerpica verso la Sila, ecco la chiesa ed il convento di San Francesco di Paola; vennero eretti nel 1635 e ampliati tra il 1681 e il 1682. Il terremoto del 1783 ne rese necessario un radicale rifacimento. Ma nel 1809, a causa delle fatidiche leggi di Murat, il convento venne soppresso ed affidato al comune che negli anni venti di questo secolo vi sistemò una scuola elementare. La facciata della chiesa, di chiara marca settecentesca, è dominata da un bel portone litico e da una inconsueta forma della cimasa. L’interno, mononavato, è veramente una festa di stile barocco con la tribuna, la cantoria, il pergamo tutt’uno col confessionale, ed il coro riccamente intagliati e decorati in legno, che si alternano alle decorazioni marmoree sparse qua e là e a quelle pittoriche eseguite da Felice Fiore di S. Benedetto Ullano. Sulla destra, dopo un altare marmoreo disadorno, ecco il citato pergamo e confessionale, segue una statua di S. Lucia su un altare marmoreo. Sulla parete sinistra, altare in marmo con dipinto su cui è effigiata la SS. Trinità; più avanti, altare con statua della Madonna del Rosario; segue altare con la statua lignea di San Francesco di ignoto meridionale del 700. Nell'abside, alle spalle di un magnifico altare in marmi policromi, sono poste tre tele: a sinistra, San Francesco nell’atto di ricevere dal papa il cordone, simbolo della regola del suo ordine; al centro, l’Annunciazione di Maria; a destra, il santo di Paola riceve l’insegna Charitas. Nella volta, grande affresco che raffigura il paradiso. In sagrestia, affresco di Felice Fiore con San Francesco che col suo manto protegge gli abitanti di Luzzi.

Nello spazio antistante si ammira una statua bronzea del taumaturgo calabrese scolpita nel 1894. In contrada San Giuliano, si erge la chiesetta rurale intitolata alla Madonna della Cava o della Sanità, edificata nella seconda metà dell’800. Il modesto prospetto con campaniletto sulla cimasa, lascia appena intuire che, all’interno, si sviluppano tre piccole navate decorate negli anni quaranta da Emilio Jusi. Sull’altare è posto un quadro che raffigura l’Apparizione della Madonna alla piccola Lucrezia Scalzo. Si tratta di una leggenda che narra di questa fanciulla orfana di padre, con gravi malformazioni fisiche, che badava a pascolare le pecore mentre la madre raccoglieva legna e la vendeva nel paese. Insomma, una famiglia veramente povera. Un giorno, anzi, un secondo sabato di settembre, mentre la giovinetta era intenta a custodire il suo piccolo gregge, una pecora cominciò a correre lontana dal gruppo e a costringerla ad inseguirla. Lucrezia perse l’equilibrio e cadde in uno spaventoso precipizio. In preda al panico e alla paura, ella invocò l’aiuto della Madonna. Una improvvisa luce precedette di poco l’apparizione della Vergine che salvò la poveretta tirandola per una ciocca di capelli ma senza farle male. Quando la pose a terra, Lucrezia era guarita dalla terribile malattia che l’affliggeva e promise alla Madonna di rimanere sempre vergine.

Altre opere presenti nella chiesa sono due tele di Giuseppe Cosenza da Luzzi, dipinte nel 1866, e raffiguranti rispettivamente, il Beato Umile da Bisignano e Gesù Cristo. Raffaele del Corcio, invece, è autore della tela su cui, nel 1893, è stata effigiata la Madonna del Pettoruto. Sopra Luzzi, a circa Km. 15, in una zona boscosa e panoramica, si trova l’abbazia di Santa Maria della Sambucina. Costruita, secondo vecchie fonti, tra il 1135 e 1145, a parere della Di Dario, tra il 1135 e il 1150, sulle strutture di una abbazia di probabile origine benedettina, fondata venti anni prima e denominata Santa Maria Requisita, mutò il nome forse a causa della rigogliosa vegetazione di oleandri nella zona. La Sambucina non tardò a diventare la casa madre di numerose abbazie cistercensi del meridione d’Italia. Vi soggiornarono l’abate Gioacchino e numerosi altri personaggi di primo piano di quell’epoca. Tra le figure di maggiore spicco, emerge certamente Luca Campano che vi fu abate dal 1192 al 1202, fino a quando, cioè, divenne arcivescovo di Cosenza. Si dice che fosse stato lo stesso Gioacchino a segnalarlo quale abate della Sambucina mentre erano insieme a Casamari, e che, in quell’occasione, il giovane novizio aveva espresso la propria riluttanza ad accettare l’incarico perché era balbuziente. Ma quando si presentò al monastero di Luzzi, con la lettera di Gioacchino sul petto, al primo accenno di parola, si accorse che parlava benissimo e attribuì tale prodigio al suo amico calabrese.

In seguito al disastroso terremoto del 1184, l’edificio necessitò di numerosi interventi, ed è a questo punto che Luca Campano vi impresse una fase gotica cistercense evoluta in contrapposizione ad un’impronta più arcaica rimasta superstite al terribile sisma. Rimane comunque da definire quali furono gli apporti dello studium artium di Casamari, e quali quelli delle maestranze locali che, secondo il Marchese, autore di una storia di Luzzi e di uno studio sulla Sambucina, ebbero un peso rilevante. Nel 1220 i Cistercensi, in seguito ad alcuni movimenti tellurici che ne avevano reso precaria la struttura, ebbero, l’autorizzazione papale a spostarsi nella vicina abbazia di Santa Maria della Matina.

La vecchia struttura non venne abbandonata completamente giacchi gli stessi religiosi, memori della bellezza del posto, dal 1235 riuscirono ad utilizzare l’antica casa madre come soggiorno estivo. La visita dell’imperatore Carlo V, ben lungi dal costituire un elemento positivo per il prestigio e le ricchezze del convento, ne segnò, invece, l’inizio di un inesorabile declino. Pare che l’imperatore non fosse affatto soddisfatto del tenore di vita che vi si conduceva e che più o meno direttamente ne decretasse la sospensione dei numerosi privilegi e prerogative che lo avevano contraddistinto in passato. Nel 1561 l’abbazia appare come un ostello in cui accade di tutto ed è per questo che la frana che distrugge buona parte della chiesa e della zona conventuale, viene vista come un castigo di Dio.

Ogni intervento successivo, a partire dal 1580, non servì a riportare l’abbazia agli antichi splendori, fino a quando, anzi, nel 1780 Ferdinando IV non soppresse l’ordine cistercense. Nel 1803 le strutture superstiti furono addirittura vendute ai privati. La ricostruzione non rispettò l’aspetto originario e ci si limitò a risistemare quanto era rimasto. Di una chiesa che poteva avere tre navate con otto campate, e svilupparsi per almeno 25 metri più in avanti rispetto a come si vede oggi, fu recuperato solo un moncone al quale venne applicato il portone che certamente, in quanto a forme, lascia capire che era destinato ad un edificio più ampio. L’interno è caratterizzato da pochi elementi originari che rendono difficile un’esatta ricostruzione storico-stilistica del complesso. Solo in seguito ad una serie di scavi si è potuto accertare che la pianta della chiesa presenta tutti i modelli costruttivi imposti da San Bernardo per gli edifici del suo ordine; si richiama in modo particolare la chiesa di Fontenay in Burgundia, considerato il modello della più antica architettura cistercense. In ogni caso, si nota il presbiterio rettangolare con copertura a vele ogivali e la crociera con l’arco a sesto acuto di epoca tardo romanica. Il chiostro appare integro. Non altrettanto si pur dire per il maestoso portale, sormontato da una finestra guelfa, la cui parte originaria del XII secolo, è pressoché scomparsa; è leggibile invece l’iscrizione attestante l’ultimo rifacimento del 1625-26.

Le altre parti superstiti sono: i grandi archi del transetto, i pilastri di poco più di una campata della navata centrale, un arco della piccola navata di sinistra e uno di quella di destra, la piccola abside rettangolare (già citata) con le sue tre campate a sesto lievemente acuto. La crociera, i bracci e le tre navate non avevano l’attuale soffitto a botte, ma piano. Il campanile, posto sulla sinistra, è stato rifatto alla fine del sec. XIX; vi sono due campane rispettivamente del 1594 e del 1898. In una delle pareti dell’abside è visibile un tipico affresco del 400 raffigurante la Madonna del Sambuco col Bambino, oltre ai fiori di sambuco sullo sfondo, vi si legge un nome e una data: Orlandus Stames MCCCCI. A destra della navata centrale, grande tela dell’Assunzione di ignoto meridionale della fine del 500 contenuto in una ricca cornice lignea; qualcuno ne ha azzardato l’appartenenza a Luca Giordano, mentre il Frangipane vi intravede il pennello di Antonio Alberti, detto Barbalunga, attivo nel sec. XVII. In sagrestia, un antico capitello in pietra, probabilmente appartenuto all’antico monastero precistercense.

Accanto alla chiesa si vedono i resti dell’antica chiesa e del chiostro, affioranti dai rifacimenti posteriori di edifici moderni. La tradizione orale serba ancora il ricordo del periodo in cui il monastero era in piena attività, e in cui si conservava una ricchissima biblioteca con opere e manoscritti rari e di gran pregio tra i quali alcuni di origine ebraica. Oggi purtroppo non rimane che poca cosa; in ogni caso, sono senz’altro degni di nota un codice con le regole di San Benedetto, l’elenco degli abati della Sambucina che si conserva a Casamari e il codice Vaticano Latino 179 del sec. XII che tratta delle dissertazioni di Ugo di S. Vittore sulla gerarchia celeste di Dionige l’Aereopagita. Legata alla leggenda è la storia della piccola statua in oro della Vergine, murata, assieme ad altre opere preziose, per preservarla da furti e saccheggi e mai più ritrovata.

Secondo alcuni detrattori del paese su Luzzi penderebbero le imprecazioni di un monaco della Sambucina maltrattato e scontento dei luzzesi. La maledizione sarebbe stata pronunciata, addirittura, mentre il religioso faceva pipì e la indirizzava verso i suoi abitanti. Interessante e ancora molto adoperato, il vestito tradizionale. Si dice che Gioacchino da Fiore, ospite del monastero, un giorno incontrasse un giovane che portava con si del vino. Dovette faticare non poco il forestiero per farne assaggiare un po’ al religioso; ma Gioacchino dopo averne bevuto più del solito declinò ogni ulteriore invito. Fu allora che lo sconosciuto gli rimproverò che se egli avesse continuato a tracannare, nessuna scienza avrebbe avuto più segreti per lui. Forse significa che le sue qualità spirituali e le sue doti profetiche siano derivate da quel po’ di vino sorseggiato?

In provincia è noto il motto: "Acri, Bisignanu e Luzzi hannu fattu na cumpagnia cui li cazzi" (non ha bisogno di traduzione).

Tratto da "L.Bilotto" - Itinerari culturali della provincia di Cosenza

 

BARTOLINI F., Le più antiche carte dell’abbazia della Sambucina, in "Atti del I congresso storico calabrese", Cosenza, (1954), pp. 561-567;

MARCHESE G., Tebe Lucana, Val di Crati e l’odierna Luzzi, Napoli, D’Agostino, 1957;

FOBERTI F., La badia di Sambucina e Gioacchino da Fiore, in "Brutium" XI (1932), nr. 10-11, p. 3;

FRANGIPANE A., Alla Sambucina di Luzzi, in "Brutium" XII (1933) Sambucina, Saggio storico sul movimento cistercense nel destino di una terra di Transito, Bari, Laterza 1963, pag. 7.

 
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