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BONIFATI

Jele, il nome che, a tutt’oggi, è dato ad una fonte nei pressi dell’abitato, potrebbe essere la prova che il paese sia stato fondato, agli inizi del 400, sulle rovine di un centro focese di nome Hileo, o Jele; anche il gioco delle uova, che si pratica da queste parti richiama un’usanza analoga ancora diffusa in Grecia. Dopo le razzie del Guiscardo che rase al suolo Jale, i cittadini superstiti edificarono un paese più difendibile di nome Bonifati (o Bonifato) dominato da un castello. Ad incrementarne la popolazione, provvidero tre profughi casertani, Marcantonio de Aloe, Filomarino d’Amico ed Emilio Santoro.

Appartenuto ai Sangineto, entrò successivamente a fare parte del vasto stato del principe di Bisignano. Per la politica anti-aragonese perseguita da Bernardino Sanseverino, nel 1505, venne ceduto dalle autorità governative ai Giustiniani di Genova. Nel 1605 veniva venduto, per 18 mila ducati, a Valerio de Gregorio la cui nipote Isabella, nel 1607, vi subentrò assieme al marito Muzio Telesio, pronipote di Valerio, fratello del filosofo Bernardino, che vi ebbe incardinato il titolo di principe nel 1640. A Muzio successe Giacomo, quindi Roberto che dilapidò l’intero patrimonio familiare provocando la vendita del feudo all’asta. Aggiudicataria fu Elisabetta Van Eynden, vedova di Carlo Carafa i cui discendenti furono feudatari di Bonifati fino alle leggi eversive.

Del castello feudale, di costruzione medievale, restano pochi ruderi. La chiesa della SS. Annunziata risente delle manomissioni di cui è stata oggetto nel corso dei secoli. Fondata tra la fine del Cinquecento e gli inizi del Seicento, presenta un interno decorato a stucchi, con altare maggiore contenente una coppia di sculture lignee raffiguranti l’Annunciazione, opera di statuari meridionali del sec. XVIII; il ciborio è in marmo bianco del sec. XVII, proveniente da bottega di marmorari napoletani; nel presbiterio, coro ligneo a 14 stalli opera di intagliatori locali del 700. Inoltre, acquasantiera a pila in marmo bianco del sec. XVII di lapicida calabrese; scultura marmorea raffigurante due angeli che reggono un’iscrizione, opera di ignoto artista meridionale, datata 1615, che prima era posta sul portale della chiesa. Tra gli oggetti sacri in argento, è degna di nota una croce astile del 600 di bottega napoletana. Inoltre, crocifisso ligneo di ignoto meridionale del 700 e le seguenti sculture lignee del sec. XVIII: Assunta, Madonna del Carmine, Addolorata; quest’ultima in legno dipinto con manto a fili doro e velluto nero.

Nella chiesa di Santa Maria Maddalena, era posta un’altra bella opera di Teodoro il Fiammingo, oggi custodita presso la Soprintendenza; dipinta ad olio trasportato su compensato, raffigura Cristo tra i SS. Pietro e Paolo. Inoltre, acquasantiera in marmo bianco del 1615. Fino all’eversione della feudalità, vi era operante anche un convento dei padri Domenicani; oggi vi rimane la chiesa del SS. Rosario, consacrata nel 1520. Sull’altare maggiore in marmo bianco del sec. XVIII, scultura lignea del sec. XVII raffigurante San Domenico e altra statua di San Vincenzo Ferreri con le medesime caratteristiche; sulla parete sinistra, statua di San Michele Arcangelo, secondo la consueta iconografia derivante dalla cinquecentesca opera del Santuario di San Michele al Gargano.

Degno di nota è anche il coro ligneo a 28 stalli, opera di intagliatori locali del sec. XIX. La statua della Madonna del Rosario si trova casualmente in questa chiesa. Mentre da Napoli veniva trasportata per essere destinata a Pizzo, un’avaria alla barca presso il Golfo di Bonifati fu interpretata come la volontà della Madonna di fermarsi in quel posto e di vedere innalzata una chiesa in suo onore.

Durante l’alluvione del 1848, i bonifatesi, stremati dalla pioggia continua, minacciavano di buttare la statua nel torrente qualora il maltempo non fosse cessato; appena la statua venne portata fuori dalla chiesa, la pioggia s’interruppe e tornò il bel tempo. La cappella laterale, appartiene alla confraternita del Rosario. Nel cimitero, statua in marmo della Madonna col Bambino.

Sotto l’abitato, resti del grandioso edificio fondato dai Paolotti e soppresso nel 1809 ad opera dei napoleonidi. Sulla costa, presso Cittadella del Capo, torre di guardia facente parte del sistema di avvistamento e di difesa approntato durante il viceregno.

Venivano chiamati ciuoti, ma anche non religiosi. Cera da scolpire un crocifisso ma nessuno del posto offri il legname di ciliegio necessario, obbligando gli scultori a ricorrere ai paesi vicini.

Si dice: "Visignano fu lu padri, Fuscaldu fu la madri, chi ficiru dui frati: Albidona e Bonifati".

Nei tempi passati, durante la prima notte di nozze, i genitori della sposa vegliavano l’abitazione che ospitava gli sposi onde evitare che qualcuno ponesse su una finestra il pagarrune un cespuglio spinoso che starebbe ad indicare la non illibatezza della ragazza, o, quantomeno ad insinuare tale "terribile" dubbio.

Tratto da "L.Bilotto" - Itinerari culturali della provincia di Cosenza

 

ENGELS G., Bonifati un principato di Calabria Citra, Città di Castello, Arti Grafiche, 1980;

IDEM, Tradizioni popolari religiose in San Sosti e Bonifati, in AA.VV. I beni culturali e le chiese di Calabria, Reggio Calabria, Laruffa, 1981, pp. 578 - 585;

GIPI, Bonifati, Bocchigliero, Staiti e Ciminà, in La Calabria;, a I, n. 33, Roma, 23. XI. 1919.

 

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