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BELMONTE

Edificato, con buona probabilità, dalle popolazioni rivierasche che preferirono vivere in un paese più sicuro e difendibile su una rupe rocciosa, balza alla ribalta della storia nel 1270, quando venne scelto dagli strateghi di Carlo d’Angiò per costruirvi un castello. Secondo uno studioso locale, il paese trarrebbe il suo nome da una delle numerose torri di avvistamento costruite sul litorale per mettersi in salvo in caso di incursioni dei Musulmani. Quella eretta in questo centro sarebbe stata voluta da un maresciallo di nome Dragone di Beaumont comandato in Calabria nel 1270.

A testimonianza del fatto che in quell’anno esisteva soltanto il castello, concorre lo studio del Pardi sui registri della tassazione angioina dal quale si evince che esistevano solo i villaggi di Tingia e Santa Barbara; di Belmonte nessuna traccia. Verso il 1280 il primo nucleo abitativo prese il nome di San Bonaventura per onorare la morte di questo santo francescano avvenuta in quegli anni. Quando un tal Pietro Salvacoscia ottenne da Carlo d’Angiò la baronia del posto, egli trasferì il nome del castello anche al paese. La storia appare un po’ confusa e non si sa fino a che punto credibile. Nel 1325 vi figura, quale barone, Cola Mastrogiudice; nel 1360 Guglielmo Sacchi i cui discendenti vi rimasero fino quando, nel 1443, il re lo concedeva in baronia a Galeazzo di Tarsia la cui famiglia, con alterne vicende, non esclusa quella di una vendita temporanea del patrimonio a Camillo Sersale barone di Caccuri, vi governò fino alla metà del 500. In quell’anno Belmonte veniva venduta per 28.220 ducati ai Ravaschieri nel 1619 ottennero il titolo di principi di Belmonte.

Nel 1722, la linea maschile si interruppe e vi subentrò Anna Francesca Ravaschieri, sposa di Antonio Pignatelli, un generale il quale ottenne e da Carlo III il privilegio di battere moneta, e che infatti, fece coniare lo zecchino di Belmonte. Il nipote di costoro, fu l’ultimo intestatario del feudo, sorpreso dalle leggi eversive. La popolazione ebbe molto a patire le conseguenze delle ultime resistenze all’avanzata francese all’inizio del decennio e dopo la resa di Amantea. Andando in giro per il paese, si notano i resti delle muraglie di fortificazione di età medievale e, nei pressi del Vico II Indipendenza, di una vecchia porta d’accesso.

Il castello di cui s’è fatto cenno allinizio, fortificato ulteriormente nel corso del sec. XVIII, ha registrato la presenza di tutte le famiglie feudali che si sono avvicendate in questo paese; oggi rimangono dei ruderi con muri merlati, torrione cilindrico ed altri elementi quali porte ed archi.

La chiesa parrocchiale è intitolata alla Madonna Assunta. Venne eretta nel Medioevo, rifatta nel sec. XVI e poi più volte ritoccata al punto da fare scomparire le antiche linee ricordate solo da tracce di blocchi in tufo nella zona absidale esterna e nel campanile, oltre che nel portale gotico frutto del rifacimento rinascimentale. L’interno, interamente coperto da stucchi e decorazioni settecentesche in stile barocco, opera di maestranze locali, contiene un bell’altare maggiore in marmi policromi del 700. Sull’altare del SS. Sacramento, marmoreo e simile a quello precedentemente descritto, in una cornice di stucco, è posta una tela dipinta ad olio nel 1777 dal celebre Nicola Menzele che vi ha effigiato il Cenacolo. Sulla cantoria, un’opera di Francesco Basile del 1795: l’Assunzione di Maria Vergine in cielo. Inoltre, due dipinti di ignoti pittori dell’800 raffiguranti il Salvator Mundi (olio su tela) e San Giorgio (olio su tavola), e una tela di ignoto sette-ottocentesco su cui è effigiata la Madonna del Rosario con San Domenico e due santi. Discrete le statue processionali. Ancora visibile, frammento di una lapide ricordo di Carlo Ravaschieri e un crocifisso ligneo del 700. In sagrestia, paramenti sacri settecenteschi.

La chiesa del Carmine venne eretta nel sec. XVI e restaurata su commissione dei Ravaschieri, tra il 1627 e il 1628, cosa dimostrata dalla lapide commemorativa appostavi. A questo secondo intervento risale il portale litico secentesco, frutto del lavoro degli abili scalpellini locali. All’interno, affresco di San Francesco di Paola di A. Onterrabo del 1828. La devozione dei feudatari è dimostrata dal monumento funerario di famiglia creato nel 1628 e recante il blasone del casato. Nell’abside, in un’interessante cornice in legno dorato del 600, è racchiusa una Madonna del Carmine, icona figurata ad olio su tela, copia di madonna romanica.

Nella frazione dellAnnunziata, chiesa di Santa Maria dei Greci (o dell’Annunziata), oratorio di origine medievale prima appartenuto ai Basiliani, poi trasformato in benedettino, quasi sicuramente voluto dai Normanni in ossequio alla chiesa di Roma, e sorto con ogni probabilità sul sostrato di un tempio pagano dedicato ad Afrodite e alle divinità silvestri. Dopo il crollo subito nel 1467, venne riedificato nel 1523 per essere nuovamente restaurato nel corso del sec. XVIII. Il portale medievale, scolpito nel periodo normanno-svevo da maestranze locali, è a sesto acuto.

Il campanile e l’abside mostrano qualche elemento della costruzione originaria. La traccia della presenza feudale è anche presente in questo edificio che reca una lastra sepolcrale marmorea dei Ravaschieri con bassorilievo bipartito del 1523, che ritrae, in alto, la Madonna col Bambino, San Giovanni Battista e San Giuseppe, in basso San Giorgio a cavallo nella consueta scena in cui uccide il drago. Di un certo interesse è anche un dipinto su tavola di scuola toscana del 500 che raffigura l’Annunciazione. Nella cappella del Purgatorio, sull’altare maggiore, racchiusa in una cornice lignea a ricco fogliame intagliato e dorato, tela dipinta ad olio che ritrae le Anime del purgatorio, opera di manierista settecentesco partenopeo.

Il convento dei Cappuccini fu eretto nel 1607 per volere di Maria Ravaschieri in una località denominata Cava di Stringorile. La chiesa venne dedicata a San Giuseppe. La struttura monastica fu attiva per duecentodue anni e un mese, fino al fatidico anno 1811. Varie vicende si susseguirono negli anni successivi: nel 1829 i frati, rientrati in possesso dei loro averi, vendettero chiesa, convento e giardino alla famiglia del Giudice. Nel 1857 un esponente di questo casato esprimeva la sua volontà di vedere di nuovo i Cappuccini a Belmonte senza che gli stessi dovessero sborsare un soldo. E ciò avvenne perché nel 1860 i religiosi vi erano operanti. Qualche anno dopo, però, non si sa per quale motivo, Bonaventura del Giudice, senatore del Regno Unito, scacciò repentinamente e in malo modo i pochi monaci rimastivi.

Oggi del convento rimangono solo dei ruderi con alcune meridiane, e la chiesa, che versa in precarie condizioni, viene riaperta solo in occasione della festa di Sant’Antonio.

La piazza principale è sorta in seguito alla demolizione di un edificio appartenente a Bonaventura Barone. Sulla collina di Bastia, è collocato un monumento-faro dedicato a Michele Bianchi che in questo paese ebbe i natali.

Tra le tradizioni del paese, v’è quella di costruire pastori per il presepe.

Il martedì grasso si porta in giro per il paese il pupazzo di carnevale morto; il corteo tra lo schiamazzo di grida e suoni di campanacci si reca nei vari rioni a chiedere uova, vino e salsicce che saranno poi infilzate in uno spiedo. La sera la sfilata assume le sembianze di un vero e proprio funerale: il prete, in atto di preghiera, precede tutti; più indietro, la bara portata in spalla, poi la vedova, rappresentata dalla quaresima, addolorata e piangente; in ultimo amici e parenti con candele e grida di dolore strazianti. La creatività e la fantasia suggeriscono le parole del pianto funebre cariche di umorismo e simpatia. Ogni tanto qualcuno strilla: "E muortu!". Infine, quando ormai è tardi, carnevale finisce in un rogo e le vettovaglie ricavate, in un ricchissimo banchetto; il tutto allietato da canti e balli.

Un po' dovunque si dà per certo che la notte sia il regno degli spiriti e che specialmente i bambini risultano essere i più vulnerabili; ecco perchè non bisogna lasciarli mai soli perchè assumbrerebbero, ossia sarebbero dominati dalle ombre.

A Belmonte si ritiene che persino i pannolini dei neonati, se lasciati ad asciugare anche nelle ore della notte, potrebbero impregnarsi di forze malefiche; anzi, vi si nasconderebbe l’anima du paganiellu, cioè di un bimbo morto senza battesimo. E’ famosa per i cordari.

Si dice: "Maritati ara Mantia e nzurati a Bellimunti" (maritati ad Amantea e sposati a Belmonte).

Costume tradizionale: "Vestono a nero, tranne nella gola color marrone, che dicono San Franceschino. Gonna a cannuoli. Bustino aperto sul lato dritto, dove sallaccia. Maniche staccate e con mostra. Rituorto. Il corpetto delle civili sallaccia di dietro".

Tratto da "L.Bilotto" - Itinerari culturali della provincia di Cosenza

 

CARRATELLI O., Le colonie marine di San Lucido e Belmonte, in "Calabria Fascista", I. XI. 1931;

TURCHI G., Storia di Belmonte, Cosenza, 1963.

 
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